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Il secolo 1900 tutto sommato si è concluso senza che noi ce ne accorgessimo veramente, anche se poi tutte le grandi paure che crescevano mentre si consumavano gli ultimi scampoli della guerra fredda, si sono poi tutte quante prevedibilmente concretizzate. Questo non significa che il mondo contemporaneo sia un incubo o che il mondo sia peggiore di come poteva essere venti oppure cinquanta anni fa: significa solo che adesso concretamente stiamo toccando con mano quelle cose che ci raccontavamo quando eravamo ragazzini. Guerra globale, millenium bug, buco nell’ozono, campi profughi, sono tutte cose che esistevano già nel secolo scorso e che oggi sono poi esplose in tutte le loro inevitabili contraddizioni e in una maniera che ancora fatichiamo a capire, solo perché non si vogliono prendere decisioni comuni per fronteggiare la cosa.
Naturalmente non siamo spaccianti, nonostante il “cretinismo” dilagante e il caso della Brexit in questo caso è emblematico e allo stesso modo è significativo che “Cunts Are Still Running The World” di Jarvis Cocker sia ritornato in auge quasi quattordici anni dopo e che questo pezzo fosse incluso nella colonna sonora di “Children of Men” (2006) di Alfonso Cuaron, il film di fantascienza tratto da un romanzo di D.P. James e ambientato nel 2027, diciotto anni dopo quella che viene definita come una grande crisi che porterà all’infertilità di massa della specie umana e il suo avvio verso la fine, coincide quasi fatalmente con i tempi segnati dalla storia. Non a caso credo il film sia stato da molti considerati come uno dei migliori film del genere del ventennio. Lo ricorderete perché c’è anche il maiale di “Animals” dei Floyd che viene osservato da una finestra dal protagonista della storia interpretato da Clive Owen.
Siamo comunque nel Regno Unito e il tema del “cretinismo” si può dire che sia stato ampiamente trattato dai Pet Shop Boys nel corso della loro carriera, vi hanno pure dedicato in maniera esplicita un singolo tratto da “Fundamental” nel 2006. Legati in maniera incontrovertibile alla cultura pop non solo musicale degli ultimi quarant’anni, il duo composto da Neil Tennant e Chris Lowe aveva proprio l’anno scorso pubblicato un EP di quattro canzoni (“Agenda”, x2) che non è stato accolto con particolare favore dalla critica, ma che metteva sul tavolo tutti quei contenuti che ho sommariamente accennato fino a questo momento e altri ancora: il ruolo dei social media, la diseguaglianza sociale, infine temi di carattere religioso.
Tutta questa lunga premessa ci porta al tempo presente e a questo nuovo disco che si intitola “Hotspot” (x2), prodotto ancora una volta da Stuart Price e registrato principalmente a Berlino, proprio la città il cui crollo del muro più di trent’anni fa si dice adesso retoricamente che si pensava avrebbe risolto tutti i problemi e messo fine a un secolo di guerre ecc. ecc. La verità è che (quelli che grandi oppure piccoli c’eravamo) sapevamo bene che le cose non sarebbero andate così, Tennant e Lowe nel 1993 ripresero “Go West” dei Village People, ma in verità non ci ha capito niente né chi vi ha letto un qualche omaggio alla decaduta URSS né un inno alla vittoria del capitalismo. Oggi raccontiamo un mucchio di cazzate ai ragazzi, ma nel 1990 lo sapevamo che non aveva vinto nessuno.
La storia in definitiva non finisce e non comincia a Berlino, anche se i Pet Shop Boys oggi ci sono voluti tornare per registrare questo disco: lo spazio sono i mitici Hansa Studios e il disco è sicuramente più un classico secondo gli standard del duo. Ci sono pezzi potenti come “Will-o-the-wisp” e degli standard per il repertorio synth-pop (pure nelle tematiche) come “Happy People” e soprattutto “I Don’t Wanna”. Meno interessanti i pezzi più “romantici” del loro, come “You Are The One”, “Hoping For A Miracle”, “Only The Dark” e la più tradizionale (secondo i canoni della musica pop britannica) “Burning The Heater” (del resto alla chitarra c’è un nome navigato per il brit-pop come Bernard Butler) . Menzione a parte per la conclusiva “Wedding In Berlin”, scritta per il matrimonio di un amico e che spaccherebbe in qualsiasi discoteca, mettendo assieme techno, dance-floor, lo stile tipico del duo e la marcia nuziale di Jakob Ludwig Felix Mendelssohn Bartholdy. Del resto lui era tedesco…
Mi fa piacere dedicare una menzione a due pezzi speciali poi come “Dreamland” con gli Years & Years e “Monkey Business”, realizzata con la partecipazione di Keely Hawkes alle voci, dove si esalta lo spirito della tradizione della dance anni settanta e si rinnova così come il duo ha contribuito a fare sin dalla sua nascita.
Tutto il materiale della storia musicale dei Pet Shop Boys è così importante che artisti o presunti tali a vario titolo, vuoi Madonna, vuoi tanto Bret Easton Ellis, ci hanno costruito su una intera carriera ma senza cogliere in nessun modo gli autentici contenuti di carattere sociale. La musica pop dei Pet Shop Boys è universale e ci racconta a tutti gli effetti un “mondo piccolo”, una serie di piccoli mondi e che possiamo trovare in ognuno degli angoli delle nostre città e pure nelle tanto dimenticate – ma sempre al centro del dibattito politico in tv e sui social media… – periferie. La storia non comincia e non finisce infatti a Berlino, pure se qualche “cretino” ci vuole rendere più complicate le cose ritornando a alzare muri e barriere invece che abbatterle. Questo disco non è sicuramente un lavoro indimenticabile nella produzione del duo, ma è un buon disco e penso che rivendichi quanto di buono la cultura pop ha fatto e può continuare a fare per mettere assieme le persone e aiutarle a uscire fuori dall’isolamento.
70/100
Emiliano D’Aniello