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Come si fa a “spiegare” Destroyer? Siamo arrivati all’album numero tredici ma “Have We Met” non aiuta a rispondere, o almeno non a rispondere in modo conciso e univoco. Non aiutava neanche il penultimo “ken”, di due anni fa, disco dai toni quasi new wave e insieme molto “contemporaneo”, formalmente distante da parecchia della produzione di Dan Bejar.
Ora, se c’è una cosa alla quale Bejar non ha mai rinunciato è quel cantato impetuosamente “trascinato” che lo può far sembrare l’ubriaco col tavernello per strada, il prete la domenica o il tuo migliore amico che cerchi per farti scuotere. Se come trademark non bastasse, di pari passo, si registra la crescente capacità di adattare quel registro vocale e testuale a contesti musicali diversi.
Il canadese, in sostanza, riesce a valorizzare il suono al massimo ma mettendo sempre se stesso in primo piano. Lui con la sua barba, i suoi quattro o cinque chili di troppo, i capelli di chi s’è appena grattato la testa, l’aria tra il rassicurante e il debosciato. Ma senza essere una caricatura, mai.
“Have We Met” non è, o almeno, non sembra quel disco elettronico che Dan Bejar dichiara nelle interviste. Nel senso che è davvero un disco fatto in larga parte di sintetizzatori e di “fake drums” ma l’utilizzo che lui e John Collins (produttore e polistrumentista) ne fanno è pari a quello fatto fin qui con la strumentazione più “canonica”. La scrittura di Destroyer, ricchissima, ispirata, pop nel senso più alto si è spessissimo prestata a rivestirsi di suoni diversi senza perdere di credibilità. Magari più “umani” di questi, magari fiati e chitarre acustiche, magari il suono di una band. Ma cosa cambia? Personalmente poi, figuriamoci, penso che persino una gemma pop come ”It’s Gonna Take An Airplane” (2004) farebbe la sua figura con un abitino digitale e un filo sexy.
“Have We Met” parte con un trittico perfetto che va a sfociare nel singolo “It Just Doesn’t Happen”, la canzone che è un po’ il vertice dell’album. Il pezzo inizia con questo dannato giro in bella mostra: un taglio di natura “outrun”, poi nascosto e lasciato riaffiorare finché non prende il timone della canzone. Il timone della canzone, della tua testa e probabilmente della tua vita, almeno per questa mezza giornata.
E poi, a rappresentare bene il discorso fatto sopra c’è l’altro singolo: “Cue Synthesizer“. Qui siamo nel pieno (liricamente, concettualmente e a livello di suono) di quel laboratorio dove si sperimenta se Destroyer perda la sua cifra o la conservi in un mood industrial-sensuale al silicio. Indovina come va a finire? Io dico solo che neanche il video con le fottute coreografie (che van di moda oggi) intacca l’integrità cantautorale, “noir” e atemporale di Destroyer.
83/100
(Marco Bachini)