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Secondo articolo della nostra rubrica [my2cents]: pensieri in libertà, estemporanei o documentati, comunque – interessanti, razionali e possibilmente acuti. Questa volta il Bachini ha meditato sulla figura odierna di Morrissey in contrapposizione con quella compagnia che gli Smiths forniscono in primavera e la situazione attuale di confinamento pandemico.
Non so se per abitudine, per associazione libera, per riflesso, per necessità biologica, io in questa fase dell’anno, ogni anno, ascolto i Blur e gli Smiths con una smania e un’assiduità di gran lunga superiori a quanto non faccia a dicembre, agosto e ottobre, per dire. Forse la combo Marzo-Blur-Smiths avrà anche a che fare con Stephen Street (che mise mano su gran parte dei lavori di entrambe le band) ma credo che sia qualcosa di più impalpabile, d’indefinibile attraverso i nessi della ragione e quando dico biologico non scherzo poi tanto. C’è questa immagine bucolica nel retro del CD di “Leisure”, primo album dei Blur, che dice molto, se non tutto: vent’anni, un prato, foto controsole, le giacche finalmente aperte. Sì, poi lì ci sono pure le mucche, ma magari, quello è un plus. È un’immagine che mi rassicura, come una riscossa ordinata, come una rimonta, come una presa di coraggio dentro la timidezza. E pescando tracce a caso da “Hatful Of Hollow”, “Meat Is Murder”, “The Queen Is Dead”, idem, stessa cosa ma elevata alla enne. Lì la riscossa è avviata, il sole scalda appena ma se lo punti fa socchiudere gli occhi, le ferite adesso si curano, gli obiettivi fanno pace con i limiti.
Ecco, quest’anno, marzo 2020, non sta andando esattamente così. Ci sono le condizioni cronoambientali perfette, non quelle sociali, personali, umane. In uno scenario drammatico, sospeso, incerto e in cui serve innanzitutto responsabilità, tra le voci che si sono alzate c’è stata anche quella di Steven Patrick Morrissey. Si è alzata, o meglio è stata rilanciata, per dispensare pillole d’irresponsabilità, tra provocazione sciatta e uno sconclusionato spirito di ribellione. Lo ha fatto banalizzando dal palco di Colonia tutto il tema del Covid-19 e dei suoi effetti. E poi ha usato nella data londinese del 14 marzo (già è allarmante il fatto che si sia tenuta) l’immagine che lo ritrae nella copertina di “You Are The Quarry” (che per l’occasione diventa “You Are Quarantined”) con una mascherina di quelle a cui ci siamo tristemente abituati. E anche a queste uscite ci siamo tristemente abituati. Infatti, vuoi perché abbiamo altro a cui pensare, vuoi perché le immagini che ci cazzottano lo stomaco sono altre, alla fine non gli abbiamo dato neanche peso.
Ora, sull’esigenza di separare l’artista Morrissey dal tizio che dice cose mediamente bruttissime si sono già espressi tanti, tra cui, con molto garbo e rispetto, anche un certo Nick Cave. Per arrivare poi a dire che, sì, separare è necessario. Su questo siamo d’accordo ma in questi giorni, per una serie di fattori che sento molto viscerali, ecco, devo tornarci sopra. Insomma, c’è questa cosa drammaticamente dissonante che mi fa sanguinare dal naso: una delle persone che in un momento come questo vorrei a distanza siderale (non l’abituale distanza di sicurezza) è quello a cui riconosco la paternità di tutta la musica di cui oggi avrei bisogno, sia in una condizione di beata normalità, sia in questa.
Qui non mi riferisco tanto ai contenuti in senso stretto e ai temi di Moz. Non mi metto a fare l’esegesi dei testi degli Smiths. Non ne sono titolato e poi non è nemmeno il senso di questo mio discorso. Per certi versi, Morrissey è caustico da sempre ma un conto è quello, altra cosa le posizioni di oggi. Piuttosto io mi riferisco a quell’aura di pacata resistenza (quella sensata, quella vera), di battaglia dolce, di struggente consapevolezza, di vicinanza composta che permea il 99% del suono Smiths. Che si parli di mucche, di camion, di ragazze, di poeti, di dj da impiccare, lì dentro c’è, grosso modo, tutto ciò di cui oggi ho bisogno. Nelle note, intendo, nel suono delle parole, prima ancora che nelle parole. C’è la musica che mi solleva da terra senza farmi perdere il contatto visivo con il suolo. Gli Smiths sarebbero da mettere nel kit per vincere o sostenere una qualsiasi forma d’isolamento, ma anche di paura e d’incertezza. Per gestire l’isolamento necessario di oggi, sì, perché quel repertorio ha sempre funzionato nell’isolamento figurato since 1983 per qualche milione di noi. Ha sempre funzionato nel gestire l’incertezza, trasformando il “non sarò mai” in uno scenario di possibilità. E per giunta creando un’esperienza così intima e ammazza-distanze da poter giocare con il tema classico della musica (“Panic” al contrario) che parla esattamente della tua vita. Con la forza dirompente di un quotidiano irripetibile, attraverso le immagini di poesia sotto il sole in un cimitero inglese. E tutto questo attraverso le corde di Marr almeno quanto mediante i testi di Morrissey. Pari negli intrecci e nelle rincorse. Perché in “Barbarism Begins At Home” è già tutto detto prima che entri il cantato a 0:48.
Ecco, se devo tornare oggi, con l’emotività, i drammi e i bisogni di oggi, a meditare su quei toni che mixano conservatorismo, nazionalismo e spregiudicatezza, posso solo rinunciare a dare un nome al disorientamento. E tenermelo, il disorientamento, come le paure e le incertezze. E la musica. Probabilmente, la musica, volatile e per sua natura immateriale, è centomila cose. È quello che ci vedi, quello che ci senti. È un pregiato contenitore. Ed è quel che ci metti dentro perché, appunto, ne hai un gran bisogno. Ma occorre anche che ci sia qualcuno ispirato, consapevole o meno, genio o rincoglionito che una o cento volte ha cucito i pezzi di quel contenitore. E ti tocca pure ringraziarlo perché è un contenitore in cui, per un motivo che non sai spiegare, ti senti di riporre ciclicamente i tuoi pensieri e i tuoi sogni.
(Marco Bachini)