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“An inspirational anthem for anyone who’s ever been in an existential crisis”. Con queste parole pronunciate durante la conferenza stampa di presentazione del disco, Martin Courtney descrive “The Main Thing”, album della definitiva maturazione per i Real Estate, dal punto di vista musicale quanto concettuale: se la band originaria di New Jersey, a partire da Days in poi, è riuscita a realizzare un percorso di coerenza musicale e perfezionamento del proprio sound che rappresenta una rarità nel panorama della musica indipendente contemporanea, in “The Main Thing” prevalgono temi finora mai affrontati quali l’amore adulto e dunque razionale, le responsabilità familiari, la solitudine ineluttabile e la perdita di sé stessi in un mondo dominato dalla dispersione.
Courtney, che sembra essersi finalmente liberato dall’ingombrante presenza-assenza del suo alter ego Matt Mondanile, esegue dei testi più che mai ispirati, con la solita voce dal timbro aspro e straziante, che ha acquisito però maggiore consistenza e dunque presenza fra le sonorità liquide della band. In riferimento alla dimensione prettamente musicale, “The Main Thing” segna una svolta slow e introspettiva che permette di assaporare fino in fondo i paesaggi sonori ammalianti ed essenzialmente post-romantici dei Real Estate: non mancano le ballate suburbane sostenute dal basso vigoroso di Alex Bleeker e dalle spirali escheriane delle chitarre elettriche effettate di Lynch e Kallman (“Gone” soprattutto, ma anche l’iniziale “Friday” e “Falling Down”), a ricordarci che c’è dolcezza anche nelle periferie: “You hold the phone / Your hands are shaking / The number’s wrong / But it seems right / Your mind is gone / It’s not surprising / After the dawn / After the night”. Le spiagge crepuscolari degli esordi à la Neil Young in cui ritrovare sé stessi non sono poi così lontane. Mancano i tormentoni pop che strizzavano l’occhio a un pubblico più commerciale come “It’s real” e “Talking Backwards”, ma in compenso ci sono brani come “Paper Cup”, “The Main Thing” e “November”, incentrati sugli ormai classici arpeggi zigzaganti di chitarre jangle e su assoli chitarristici mai così puliti e originali: “If I could just stand still (if I could just stand still) / Is it my will / Pulling me up this hill? / Searching for something real”, canta Courtney, mentre le melodie degli archi in stile Camera Obscura e delle tastiere lasciano intravedere quella svolta verso scenari psichedelici e quasi dance che è ancora più interessante in quanto mai interamente compiuta. E c’è ancora spazio, nel finale, per canzoni fuori dal tempo come “Silent World” e “Procession”, perle orchestrali accese da una vena country-malinconica tipica dell’America profonda.
Non è un caso che il disco si chiuda con “Brother”, digressione onirica strumentale che in un disco del genere è quasi un non-sense, come se Courtney & Co. volessero dirci che, dopo tante parole e svariati tentativi di comprensione, la maggior parte di ciò che accade nella vita è indicibile e incomprensibile.
80/100
(Emmanuel Di Tommaso)