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“Non ho veramente fatto musica finché non ho avuto diciott’anni. Nella mia vita ho sempre suonato, ma non lo davo a vedere perché non pensavo che le persone mi avrebbero preso seriamente. Pensavo che la gente avrebbe detto qualcosa come ’E’ solo musica da ragazze tristi – è tipo Taylor Swift.’ Ma rende davvero vulnerabili sentirsi profondamente infranti da un’altra persona o oppressi da qualcuno che ami. E io penso che anche solo esprimere tutto questo a un pubblico sia, a suo modo, un atto politico, perché stai andando contro chiunque dica che tu, questa cosa, non la puoi sentire.”
Ho incontrato per la prima volta Sophie Allison in un’intervista del New York Times del 2017; il focus era dedicato allo spazio che le donne e gli individui queer e non binary stavano prendendo, canzone dopo canzone, nella stanca scena delle band “soprattutto maschili, soprattutto di quattro membri” dell’indie rock, per citare Joe Coscarelli, autore della piccola ma comunque storica intervista ad alcuni di questi giovani nuovi artisti sulla scena.
Sophie Allison – che all’anagrafe discografica è conosciuta come Soccer Mommy – ha iniziato a fare bedroom pop – letteralmente musica da camera, anzi, da cameretta – su Bandcamp, rilasciando sulla piattaforma gli EP “songs from my bedroom” (2015) e “songs for the recently sad” (2016); nel 2016, quando non aveva neanche compiuto vent’anni, usciva il primo LP “For Young Hearts”, seguito poco dopo da “Collection” (2017), sorta di breve appendice del primo. I due album donavano agli ascoltatori un ritratto musicale candido e insieme disincantato dell’adolescenza di Sophie nella piccola città di Nashville, in Tennessee: giorni di scuola saltati, i tuffi proibiti nella piscina dei vicini, le prime cotte e le prime delusioni d’amore diventavano il racconto universale di una ragazza ingarbugliata in questioni che possono sembrare superficiali e lontane soltanto a chi non ricorda cosa voglia dire innamorarsi per la prima volta. Il gioco serrato di botta e risposta tra basso e chitarra e la delicatezza degli arpeggi talvolta ammiccanti ai Kings Of Convenience accompagnavano il diario di questo viaggio fino agli ultimi brani, dove già nella vita di Sophie sembrava affacciarsi lo spettro dei drammi dell’età adulta e quindi il sogno di una fuga dalla realtà nell’unico, vero, possibile rifugio costituito dalla musica.
La rivelazione Soccer Mommy è arrivata nel 2018, con “Clean”: per la prima volta Sophie si trattava da “ vera artista”, realizzando un progetto più ambizioso e nitido dei precedenti. La sua voce naturalmente scanzonata e limpida guidava qui l’ascoltatore in un seducente sistema di metafore e rimandi al mondo animale e naturale, continuando il suo percorso di crescita in parallelo a quello musicale con arrangiamenti vicini al folk e al country – di cui Nashville è uno dei centri più importanti in America – e al cantautorato al femminile anglo-americano dall’impronta più minimal e intimista sulla stessa scia, tra le altre, di Jay Som e Japanese Breakfast, affermandosi sulla scena con la particolarità di scegliere melodie in stridente contrasto con il mood solitamente nostalgico e cupo del testo.
L’album è stato acclamato da molta della critica come prova definitiva di esistenza della nuova ondata indie rock di fine anni ’10, consacrando l’artista come nuova icona del genere: di conseguenza “color theory”, uscito il 28 febbraio, è stato una prova importante per Soccer Mommy, un album che sembrerebbe inesorabilmente costretto a costituire la delusione o il superamento di aspettative ormai altissime da parte della critica e dei fan.
“color theory”, come si evince del nome, si muove in una gamma di tre colori – blu, giallo e grigio -. I primi quattro brani si riferiscono al sentirsi blu della cantautrice, la depressione che le scorre nelle vene: “…Happiness is like a firefly on summer evenings/Feel it slipping through my fingers/But I can’t catch it in my hands”. La cantautrice sfodera ironia parlando del suo cuore, che segue questo flusso inarrestabile roteando sempre più veloce nello scarico del lavandino e infine scompare; si autodefinisce “princess of screwing’ up”. In “night swimming”, canta del senso di solitudine provato da un abbandono con il sottofondo di una folla qualunque e di onde che sembrano travolgerla e annegarla.
L’artista si consegna inerme a se stessa confessando isteria, paure e allucinazioni: i demoni popolano le sue giornate a casa e il suo sonno, scorrendo sotto pelle; il blu allora si mescola al giallo degli occhi di sua madre, malata da tanti anni, e alla paura che la sua vita così cambiata dalla fama la tenga lontana dagli affetti e da ciò che forse l’aveva resa, almeno in parte, felice e spensierata quando era ancora un’adolescente che pubblicava i suoi pezzi su Bandcamp. Forse è proprio questa nostalgia a guidarla nel ritorno alla semplicità di “up the walls”, che potrebbe esistere soltanto con la voce e il riff di chitarra che dominano il brano pure nel crescendo di intensità e di suoni.
Le ultime tracce sfumano nel grigio, con la buffa preghiera a “Lucy” di non tentarla con la sete di fama e di popolarità e il rimprovero, a chi la ama, di costringerla a una resa colpevole e umiliante. “gray light” è il brano che chiude l’album: la luce grigia che illumina sua madre è raccontata da un arrangiamento in equilibrio tra suoni acustici e elettronici in debito con “To Venus And Back” (1999) di Tori Amos, come da lei stessa rivelato e, aggiungerei io, “No Angel” di Dido che, non a caso, venne pubblicato proprio nello stesso anno; viene da chiedersi se questo esperimento non sia l’inizio di una nuova direzione.
Soccer Mommy ha deluso o confermato le speranze in lei riposte? sì e no. “color theory” non sembra essere perfetto come forse qualcuno sperava ma ha preparato il terreno di un prossimo, possibile capolavoro: è un album maturo nel quale l’artista sembra davvero avere trovato il modo di catalizzare in musica tutta l’elettricità creativa delle piccole storie, sentimentali e non, che la coinvolgono. D’altronde la forza di questa artista è essere la persona che tutti potremmo essere, ovunque ci troviamo – a tutti è capitato di rimanere un pomeriggio intero a letto senza riuscire a muoversi, sentirsi buoni soltanto a fallire, amare senza essere riamati -. Non c’è presunzione nella musica di Sophie Allison. In passato ha saputo incarnare con freschezza nuova lo sbiadito sogno americano di arrivare al successo “semplicemente” dedicandosi mente e corpo al proprio sogno: adesso, grazie alla sua umiltà, è diventata più di questo. Compiuta la transizione già embrionale in “Clean” tra la ragazza che descriveva molto bene ciò che le accadeva e la cantautrice che ora interpreta la propria vita nel codice di una personale filosofia quotidiana, Soccer Mommy cerca nuovi orizzonti di significato sbirciando, dal particolare della propria stanza ormai nota, l’universale al di là della porta. Forse è ancora troppo presto per parlare della cantautrice di una generazione, ma non per pensare che questo album possa sconfiggere, durante i suoi 44 minuti di durata, tutta la nostra solitudine, un po’ come se fossimo improvvisamente diventati i nuovi migliori amici di una perfetta sconosciuta. Non è poco.
77/100
(Claudia Calabresi)