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Nel caso di Jennifer Lee, meglio nota nel panorama artistico come TOKiMONSTA, è pressoché impossibile parlare della sua musica senza accennare alla sua vita privata: la dj e producer di Los Angeles ha subito, nel 2015, una delicatissima doppia operazione al cervello che, pur avendola miracolosamente salvata dalla malattia di Moyamoya, per mesi l’ha privata della capacità di comunicare con gli altri e di ascoltare e comporre musica.
“Desiderium” (2014), “You’re Invited” (2015) e “FOVERE” (2016) – una tripletta di album snack da una ventina di minuti ciascuno – sembravano preparare un cambio di rotta importante dopo l’abbandono della Brainfeeder di Flying Lotus e il passaggio all’autoproduzione con Young Art Records: un maggiore tentativo di trasversalità tra beat per la console e tratti meno spigolosi e più melodici dato anche dalle collaborazioni sempre più frequenti con artisti della scena electro-soul, funk e hip-hop – su tutti, Anderson .paak – che la spingevano in una direzione sempre meno algida rispetto al passato introducendo testi, voci e narrazioni inizialmente assenti nella sua discografia.
Nel 2015, all’insaputa di tutti i suoi fan, TOKiMONSTA affrontava, con la malattia e con la dolorosa e conseguente guarigione data all’intervento, una crisi personale prima che artistica. La collaborazione con Selah Sue la riportava poi per la prima volta a galla, dando inizio alla composizione delle tracce che nel 2017 sarebbero sfociate in “Lune Rouge”, un album importante per lei e per il panorama dell’elettronica che, oltre che ad avere consolidato il percorso iniziato negli anni precedenti, ha costituito un ampliamento ulteriore delle possibilità e dei contatti possibili tra l’elettronica e altri generi (non a caso è apparso tra le nomination 2019 dei Grammy Awards nella categoria best dance/electronica album).
Dispiace quindi, dopo un ritorno di fiamma che aveva saputo trasformare la terribile esperienza di Jennifer Lee in un risultato di tale spessore emotivo e artistico – la concretizzazione in musica intensa e riuscita di una vera e propria catarsi – non poter dare un giudizio positivo dell’album uscito il 20 marzo: ma con “Oasis Nocturno” TOKiMONSTA sembra avere fatto un lungo passo indietro rispetto a “Lune Rouge”, finendo per sparire in una terra di mezzo imprecisata e incolore collocabile, forse, da qualche parte tra Kaytranada e Flying Lotus.
Oasis Nocturno risente, forse, del grande traguardo artistico che l’ha preceduto: quasi impossibile trovare la profondità di vedute e il costante anticipo delle tendenze che negli ultimi anni aveva distinto la producer. La prima traccia, “Love That Never”, nella sua solennità e nel ricco ventaglio di suoni rimane soltanto un tranello alla luce delle tracce successive. In “One Day”, neanche Jean Deaux riesce ad aggiungere un po’ di sostanza a quello che potrebbe tranquillamente essere il prossimo singolo preconfezionato della cantante X o Y da proporre a un pubblico di teenager, sia per la struttura didascalica e prevedibile che fatica a decollare sia per il testo da femministe dell’ultima ora che è più un riempitivo che altro; e così gli altri pezzi, che offrono lyrics scontate da ascoltare, senza troppa attenzione, a una festa in spiaggia prima di essere irrimediabilmente dimenticate e che più che addentrarsi davvero nel consueto e ampio spettro di generi affrontati dalla producer – funk, jazz, soul, RnB – questa volta lo sfiorano soltanto, restituendone una versione artificiosa e sterile.
Il nucleo dell’album esaudisce almeno in parte le aspettative: “Renther’s Anthem” è pulita e accattivante, in perfetto stile TOKiMONSTA; “Fried for the Night” costituisce l’esperimento più interessante dell’album grazie all’ossimoro trap-reggae messo in atto dal duo EARTHGANG, mentre un Sunni Colòn di cui sentiremo sempre più spesso parlare anima la ballata soul-funk di “Phases”. Dopo questi pezzi l’album si inabissa in sonorità dimenticabili, con l’unica eccezione di “Higher Hopes” che insieme alla sua versione edulcolorata ma piacevole dell’house offre, grazie alla scrittura di Rosehardt, l’unico testo davvero degno di nota.
Forse l’intento della producer, dopo il coinvolgimento emotivo così forte di “Loune Rouge”, era di offrire al pubblico un luogo mentale di spensieratezza e di calma interiore come suggerito dal nome dell’album; ma un’atmosfera più disimpegnata rispetto a quella del lavoro precedente non per forza avrebbe dovuto significare questo trionfo del già sentito, un divertissement fine a se stesso dove le collaborazioni sembrano nascondere il talento di TOKiMONSTA più che metterlo in risalto e la produzione non riesce ad affrancarsi compiutamente dal proprio passato e dalle tendenze viste e sentite già dalla seconda metà degli anni Dieci in poi, togliendo così spazio a possibili nuove soluzioni e strutture che sicuramente la producer avrebbe saputo mettere in atto se si fosse data più fiducia. Non è stato così, e le potenzialità del concept sono rimaste sostanzialmente inespresse: forse, più avanti, sarà un nuovo album dai migliori presupposti a traghettare TOKiMONSTA nell’elettronica degli anni Venti.
61/100
(Claudia Calabresi)