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I Grouplove tornano sulla scena con il loro quarto disco “Healer”, un lavoro contemporaneo per tematiche e sonorità in relazione ai tempi a dir poco surreali che stiamo vivendo da oltre un mese.
L’uomo di questo inizio di 2020 si è ritrovato d’un tratto privato di quelle più scontate libertà che, fino a poco tempo fa, venivano percepite come insensati sprechi di tempo. “Oggi me ne sto a casa”, tuonavamo, presi dalle mille scadenze, da un’agenda troppo fitta e da un senso del dovere decisamente sproporzionato rispetto a quello del piacere. Ed è così che in un’epoca così avanzata, ci ritroviamo come animali in gabbia, bramanti di un pomeriggio distesi sull’erba umida del parco, di un falò alcolico con gli amici o a rimpiangere tutte quelle maledette volte in cui abbiamo detto di no, mettendo al primo posto le nostre stupide preoccupazioni.
Questo sermone vagamente autoreferenziale è la chiave di lettura attraverso la quale ho apprezzato “Healer”, un album improntato per testi e sonorità sulla ricerca di libertà dell’individuo da quella prigione delle ambizioni convenzionali in cui ci troviamo intrappolati, sebbene la chiave si trovi esattamente nella nostra tasca.
A detta di Christian Zucconi, estrosa voce maschile della band, il nome dell’album proviene direttamente da un verso del loro primo singolo pubblicato lo scorso Gennaio, “Deleter”. Il passo in questione (“all this time been burning with a fever, it turns out I’ve always been my Healer”) evidenzia come troppo spesso si affidi in maniera imprudente a qualcun altro la responsabilità del nostro benessere. Questo messaggio viene trasferito all’ascoltatore con la solita prepotenza elettrica che ci ha già folgorati nei precedenti lavori dei Grouplove, in un inno alternative alla libertà decisamente ballabile indipendentemente da quanto monotone siano le nostre quattro mura.
I due cantanti (anche coniugi) della band californiana, Christian Zucconi e Hannah Hooper, si completano artisticamente, generando un interessante mix tra sgraziata strafottenza da weirdo del primo ed eterea delicatezza della seconda. Questa alchimia funziona perfettamente ad esempio in “This is everything”, ballad criptica e dai riff di chitarra sensuali e striscianti che rimandano agli Arctic Monkeys. Le 11 tracce presentano nel complesso mood diversi che suscitano quelle sensazioni di vita vissuta di cui parlavo in precedenza, trattate con la giusta leggerezza attraverso quelle sonorità indie-rock fortemente contaminate da elementi elettronici, già presenti nella loro discografia.
Ascoltare “Inside out “è come salire su una collina e avvertire una raffica di vento che scompiglia i capelli a suon di synth ciccioni e linee di basso scacciapensieri stile MGMT. “Youth” e “Places” sono i due pezzi “sognatori” dell’album, quelli da ascoltare in compagnia dei cieli stellati estivi: il primo ipnotizza, il secondo accarezza.
La malinconica “Ahead of myself”, suona come un’intima esigenza di affogare ogni futura preoccupazione in un bel momento vivibile nel presente. E questo la Hooper lo canta con estrema consapevolezza; d’altronde in un’intervista a Billboard è lei stessa a raccontare come nel bel mezzo della preparazione del disco si sia dovuta sottoporre ad un delicato intervento chirurgico al cervello, trovando la sua fonte di distrazione nell’arte (anche visiva, essendo l’autrice del dipinto usato come copertina).
“Healer” assume quindi una funzione terapeutica anche per gli altri componenti della band che si ritrovano più uniti che mai, divenendo cura essi stessi. Chissà che non lo possano essere anche per l’ascoltatore del 2020.
(Alessandro Masciullo)
75/100