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Desideravo da tempo stendere una mia riflessione sul frenare l’accelerazione, uno dei temi fondanti degli ultimi dieci anni e banco di discussione sotterraneo dei più vari analisti del contemporaneo, siano essi giornalisti pensatori o artisti. La smania di progresso, supportata da una ricerca e uno sviluppo tecnologici che corrono più veloci di quello che noi riusciamo a fare, ha creato una fede incrollabile di matrice positivista nei confronti della macchina e dell’intelligenza artificiale.
Il volto di questa questione assume espressioni diverse dalla prospettiva da cui lo guardiamo: eviterò totalmente la visione socio-politica; per restare in ambito strettamente artistico, e nello specifico nella musica pop, l’ex campionessa di DIY e ambientalismo Grimes ha affermato, nel corso degli appuntamenti promozionali precedenti all’uscita del suo ultimo “Miss Anthropocene” che si auspica un panorama musicale dominato dalle AI, e di come la musica dal vivo diverrà presto “obsoleta”. Spero che, rispondendo a quelle che potrebbero anche essere provocazioni da parte della producer canadese, non mi si prenda per un reazionario se dico che se questo è il progresso preferisco rallentare drasticamente.
Da tempo, dicevo, riflettevo sul contrasto tra questo entusiastico dogma del progresso (“Pretendi la piena automazione! Pretendi il futuro!”) e la possibilità di fermarsi, rallentare, riflettere. Ho letto libri, articoli, frequentato le più oscure pagine di meme, ma non ho mai pensato di avere un’idea così concreta sull’argomento da poterla stendere in forma scritta per una riflessione.
Poi di botto è arrivato lo stato d’emergenza, e con quello la quarantena. Volenti o nolenti ci siamo fermati, e la paura e l’instabilità ci ha fatto ripensare all’ottimismo sfrenato con il quale guardiamo al domani. Superato lo shock dei primi giorni, il mio amico fraterno Matteo Z. mi invia la proposta di un progetto artistico collettivo da lanciare, insieme al link di un articolo del Corriere. “Dobbiamo partire adesso a pensare come sarà il futuro e quali saranno le cose che non dobbiamo dimenticarci, quelle che ci hanno portato fin qui e quelle che ci permettono di resistere tutti i giorni dai nostri metri quadri”, mi dice.
L’autore in una rappresentazione del suo stato psicofisico al momento
Queste settimane di privazioni stanno portando con sé tutta una serie di riflessioni, collettive e personali. Normalmente, guardando indietro alle uscite di un anno discografico, mi chiedo sempre cosa rimarrà e cosa non supererà la prova del tempo, diventando ‘obsoleto’ o semplicemente frutto di una richiesta di intrattenimento culturale. Quello che pensavo rimanesse trovava la sua forza, oltre che nella bellezza formale delle composizioni, anche nell’essere tappa di passaggio verso una non precisata, non ferma, musica del futuro.
Questa mattina, sorseggiando dalla mia tazza di caffè e guardando come tutti i giorni la signora del palazzo di fronte stendere i panni, mi sono chiesto come stanno le opere d’arte sacra che per fortuna abbondano nelle chiese della mia città, Firenze. Mi sono proprio chiesto, come un bambino, come stessero emotivamente, senza poter dialogare con degli occhi stupiti o emozionati che le guardassero. Sono sempre stato affascinato e posseduto dalla potenza dell’arte sacra. Spesso, quando mi trovo in un’altra città, ne visito la Chiesa o almeno ci provo. Penso al Compianto sul Cristo morto di Niccolò Dell’Arca, a Bologna, tappa quasi fissa nelle mie frequenti incursioni bolognesi.
Penso a quanto mi manchi dannatamente la musica dal vivo, e cerco di non pensare a quando sarà il mio prossimo crowd-surf, la prossima orgia di sudore e birra versata insieme a qualche decina di sconosciuti. Penso a quale sia la funzione primaria dell’arte, certo concetto inventato dall’uomo ma comunque ‘estratto’ dalla realtà.
Apro Spotify e metto su una playlist con alcuni dei brani degli ultimi anni che mi sono piaciuti maggiormente; per questa i suoni sono prevalentemente sintetici, un sacco di definizioni ambiguamente inutili: post-club, conceptronica, deconstructed-club, etc. Spotify alla fine dell’anno scorso ha creato una playlist apposita per questa parrocchia, inventando una definizione ancora nuova: “Fluxus“. Aldilà del fatto che come nome fa abbastanza ridere, che rubarlo al movimento avanguardista omonimo sia un po’ presuntuoso, che all’interno della stessa convivano artisti che seguono i più diversi stili musicali, è forse un nome adeguato. Abbiamo talmente accelerato che non possiamo che inquadrare il processo artistico come quello di un flusso costante di informazioni, dati, tendenze, che con la stessa velocità con cui arriviamo a incensare diventano vecchi, superati, obsoleti.
Al netto di questo, alcune opere come “Human Story 3” di James Ferraro riescono a raccontare alla perfezione il mondo in cui sono ambientate; lungi da me guardare alla musica con occhio reazionario
La mente da ragazzo semplice torna al Compianto di Dell’Arca. La prima volta che lo vidi, turista solitario con una mezza giornata da impiegare prima di prendere il treno che mi avrebbe riportato nella mia parte d’Appennino, mi sentii schiacciato dalla potenza sensuale di quell’opera. A metà, oserei dire, tra la sindrome di Stendhal e quella di Stoccolma, vittima di una sensibilità che a volte esagera e di un retaggio italiano e cattolico che sarà impossibile da eliminare. Siamo tutti, chi più chi meno, vittime di noi stessi e del nostro DNA culturale.
Devo prendere delle pause mentre scrivo queste righe per alzarmi e fare un po’ di stretching: la mia schiena è quasi letteralmente distrutta, tengo sempre posture orribili e lo stare seduto o sdraiato così tante ore al giorno non aiuta. Ho perso il conto dei giorni da un po’, ma l’estensione della zona rossa in tutta Italia supera ormai le tre settimane da qualche giornata. Il mondo è fermo, non lavoro da un tot e tutte le mie fonti d’entrata da ‘performing artist’ e operatore del mondo dello spettacolo si sono seccate, proprio nel momento in cui per la prima volta avevo fatto un bilancio economico per i prossimi mesi constatando che per un po’ avrei potuto fare solo quello che mi piaceva per campare.
Siamo fermi, riflettiamo fosse anche solo per tenere in moto il cervello. Ripenso alle parole del mio amico Matteo, a quello che non voglio dimenticare e, soprattutto, a quello che voglio dimenticare. O meglio, cancellare. Nell’universo memico di sinistra, uno dei refrain a cui ho più assistito in queste settimane è stato: “Non possiamo tornare alla normalità, perchè la normalità ci ha portato qui”. Rallentiamo, per carità. Ricordiamoci perchè riusciamo a emozionarci davanti a un gruppo scultoreo a tema religioso di 500 anni fa, o ascoltando Mahler, o nel ritrovato amore per la lettura che tanti stanno riscoprendo di avere. Riflettiamo su un modello di fruizione dell’arte sempre più incentrato a una fruizione singola, alienata e per certi versi ‘autistica‘ o consumistica. Siamo qui per darci senso, per estrarre da noi stessi qualcosa che duri, che rispecchi le nostre emozioni e le nostre storie collettive. Non esiste prodotto artistico senza una comunità che ne possa fruire e confrontarsi.
Non lasciamoci prendere dal flusso, non diventiamo dati.
Giuro che appena sarà tutto finito mi prendo un finesettimana per fare un giro in tutte le chiese di Firenze, chissà che non ci sia un Giotto che ha voglia di raccontare come ha passato la quarantena.
(Matteo Mannocci)