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Una chiacchierata tra scribacchini circa la situazione attuale di fruizione musicale in logica di confinamento e le prospettive del post-epidemia, economiche e non. Come in una tavola rotonda hanno contribuito Carmine D’Amico, Paolo Bardelli, Claudia Calabresi, Stefano D. Ottavio, Simone Madrau e Marco Bachini. Ragionamenti e sentimenti a ruota libera.
Carmine: Personalmente, almeno i primissimi tempi, ho fatto molta fatica a stare appresso alle nuove uscite. Come se si fosse attivato uno strano meccanismo di difesa, che voleva impedirmi di associare un disco specificamente a questi giorni.
Ho avvertito la necessità di andare a riascoltare roba vecchia, che magari era accantonata da un po’. Ho ascoltato tantissimo Bob Dylan.
Forse avevo bisogno di una musica che fosse “senza tempo”? Non so darmi una risposta.
È proprio vero, però, che il super-potere dell’essere umano è abituarsi a tutto, perché adesso sono tornato -quasi- ai soliti ritmi, come se tutto fosse stato solo una scossa di assestamento verso una nuova routine. C’è da dire che l’aver adorato il nuovo di Yves Tumor ha facilitato il tutto.
Leggendo i dati però, sembra che lo streaming non abbia avuto l’esplosione che mi aspettavo. Sono andati invece molto meglio i video e le radio.
Paolo: Infatti a me hanno sorpreso questi dati, avrei detto che comunque il maggiore tempo a disposizione avrebbe dato la possibilità di fruire anche di maggiore streaming, mentre ovvia è la fruizione più marcata della radio, veicolo anche di parole e di pensieri e cioè di un qualcosa che oggi ci manca (il confronto interpersonale). Forse all’inizio c’era più bisogno di informazione e meno di svago, ora le esigenze si sono ribaltate. Personalmente il confinamento ha aumentato l’ascolto, riformulando il come e il quando, certo, ma in generale dedicando ancora più attenzione alla musica (che da appassionato ovviamente era altissima anche prima): credo che, al di là di ogni retorica, la possibilità di avere il tempo di approfondire/recuperare album (e letture) sia l’unico vantaggio di questa situazione, per cui sarebbe stupido non farlo.
Claudia: Ho sempre sentito tantissima musica con gli amici oppure in cuffia, all’aperto, avvolta dalle voci della folla e della vita che avevo intorno. Adesso l’unico ascolto che ne posso fare è da sola, in un’atmosfera di immobilità e di atemporalità che non avevo mai sperimentato. Ho sempre considerato la musica fondamentale per la mia vita ma ora sento di averne un bisogno spasmodico, quasi disperato… e allo stesso tempo mi sembra che senza poterla condividere con qualcuno io non possa più immergermici fino in fondo, come se ora fossi sorda a una parte dei suoi suoni.
Già ora, gli album e i pezzi che ho ascoltato nei mesi precedenti allo scoppio della pandemia sono associati alla “vita prima di”, e mi evocano a pelle il mondo in cui sono nati. Questo mi sta portando ad avere ascolti meno casuali e spensierati del solito perché so che rimarranno associati per sempre a questo periodo: in un certo senso, hanno un compito più difficile di quello che avrebbero avuto in qualsiasi altro momento della mia vita.
Non a caso sto apprezzando molto le uscite di queste settimane che sono nate in questa atmosfera. Mi sembra di riuscire a sintonizzarmici con più facilità a livello emotivo.
Per quanto riguarda lo streaming, secondo me si è saturato prestissimo. Dopo i primi pionieri, sia a livello amatoriale che professionale i social si sono riempiti di dirette dei tipi più diversi, tanto che a un certo punto mi sono sentita un po’ in overdose. La musica sta provando a sopravvivere gettandosi a capofitto nel nel mondo virtuale, con risvolti positivi e negativi.
Simone: io sono abbastanza in linea con Carmine, ho ascoltato pochissima musica nuova da quando è iniziato tutto (e io sono uno di quelli che al venerdì è sempre attaccato al proprio Release Radar) puntando piuttosto su canzoni vecchie che ben conosce. C’è qualcosa che mi ha bloccato totalmente in un primo momento verso le nuove uscite, e ancora adesso mi blocca in buona parte. Credo ci sia una grossa parte di me che ha bisogno di conforto, di qualcosa entro cui rannicchiarsi, e intendo proprio in posizione embrionale. La chiamiamo comfort zone e non credo sia mai stato così appropriato. Un’altra parte di me, più razionale, sta già guardando avanti. Questa musica che sta uscendo in queste settimane mi sembra ancora legata a un mondo e a un sistema che stanno collassando. Paradossalmente mi sembra musica fuori dal suo tempo. È ovviamente prematuro considerarla tale, stiamo facendo solo supposizioni in questa fase, e non è detto che dopotutto il sistema capitalista in cui abbiamo sempre vissuto non si riprenda anche da questa crisi. Ma proprio oggi leggevo di Charli XCX che ha dichiarato di stare per pubblicare un nuovo album composto in quarantena e mi è sembrata una cosa così terribilmente fuori luogo. Come se quegli artisti che fino a ieri erano perfetti per quel momento lì siano ora improvvisamente decontestualizzati, sbagliatissimi.
Marco: Come scriveva Claudia, c’è una frattura che è determinante nel farmi avere una percezione temporale distorta (e dilatata) di questi mesi. I dischi di “prima” son robe di gennaio/febbraio, cose che stavo ascoltando all’infinito e che nelle mie previsioni non mi sarei tolto di dosso fino all’estate e oltre. Poi è andata che cose come i Tame Impala, Caribou, Destroyer non li riesco quasi più a sentire. Ma non solo perché non descrivano bene (o non siano associabili a) questo mondo sospeso qui. Non li sento anche proprio perché mi manca un monte quel mondo concreto, veloce, fisico. In un certo senso me ne voglio riappropriare quando sarà il momento. La musica che è arrivata dopo, per una questione di fortuito timing delle pubblicazioni più che di contenuti, la trovo amalgamabile, associabile a questo mondo nebuloso. Per gli occhiali con cui la guardo più che per i suoi intrinseci colori. E quindi quelli di Yves Tumor, Childish Gambino, Empress Of sembrano dischi usciti un anno e mezzo dopo “The Slow Rush”. La radio, come strumento, tira fuori le sue carte migliori quando c’è una distanza che si riduce. Oggi non l’ascolti in macchina, la senti in un tempo sospeso e in una ricerca attiva di contatto e riferimenti. Chi ti parla oggi ha più responsabilità, deve essere più incisivo. La quantità del tuo tempo (di ascoltatore) è direttamente proporzionale al valore di quel tempo. Credo valga per ogni forma di comunicazione, specie per quelle con la musica dentro. Quindi credo che valga anche per noi.
Carmine: Certo questo è uno snodo fondamentale anche dal punto di vista del difficile sostentamento dei musicisti stante la mancanza dei concerti. Mi ricordo anni fa quando era demonizzata la famosa “partnership con YouTube” e veniva considerato un venduto o peggio chiunque venisse addirittura pagato per far-video-dalla-cameretta. Flash-forward al 2020 e al Covid-19: quella generazione di youtubers va guardata come si guarda in retrospettiva a certi tipi di avanguardia.
Sono abbastanza sicuro che anche solo 5 anni fa, un evento del genere avrebbe messo molto più in ginocchio i creativi, mentre ora l’impalcatura social è (nel bene e nel male) più collaudata. Essere maggiormente in contatto con la propria nicchia stava già diventando una skill fondamentale nell’arsenale degli artisti, questo evento ha solo accelerato brutalmente il processo.
Detto questo, io personalmente sto provando ad usare i soldi che avrei usato per i concerti per comprare musica digitale su Bandcamp. Non ne sono un fruitore, in realtà, ma la sto vivendo come fosse una “donazione”.
Un consiglio che mi sentirei di dare alla gente: se potete farlo, non chiedete il rimborso di tutti i biglietti che avevate comprato. Ma mi rendo conto che è un momento in cui i soldi in tasca fanno comodo a tutti, più del solito.
Quando tutto finirà, ci porteremo qualcosa dietro?
Simone: Non si può dire niente di sicuro in questo momento ma io in queste situazioni lascio l’immaginazione andare a briglia sciolta, per cui chiedo scusa se quello che sto per dirvi potrà suonare ridicolo o esagerato. A me da un certo punto di vista l’idea di un cambiamento radicale nella società e quindi anche nella musica affascina. Penso al ventesimo secolo: il dopoguerra è stato orribile, ma ha portato con sé un vero e proprio starting point nel modo di scrivere, intendere, vendere e fruire la musica che in buona parte ci portiamo dietro ancora oggi. Parlo di tutta la cultura pop da Elvis e i Beatles ad ora. Spero che sul piano dell’economia non si arrivi ad uno scenario altrettanto drammatico ma proprio oggi sentivo che già ora siamo in uno stato di crisi peggiore di quello del 2008 – e se questo perdura la prossima generazione si interfaccerà con un mondo molto più difficile di quello già in profonda difficoltà descritto negli ultimi anni da trappers e dintorni. Quelli vivevano da disillusi in un lusso effimero, avevano tutto ma non avevano un futuro. Questi potrebbero vivere in una povertà effettiva e un mondo tutto da ricostruire e il fatto di doversi guardare in faccia e doversi dare una mano, un ritorno in primo piano di certi valori e ideali che il benessere da un lato e il disincanto dall’altro avevano fatto perdere ma che adesso tornano necessari, potrebbe essere la spinta verso la fondazione e l’affermazione di culture e attitudini totalmente diverse da quelle che abbiamo conosciuto. Poi certo ogni decennio di musica porta comunque dei cambiamenti, per carità, ma non in maniera così radicale e sempre in evoluzione rispetto a ciò che era prima. Adesso invece non escludo che potremmo assistere a un taglio più netto.
Carmine: Io credo che questa pandemia possa dare origine ad un grosso equivoco: a mio parere la scena musicale era già davanti ad un punto di svolta piuttosto netto. Siamo davanti alla primissima generazione cresciuta senza la consapevolezza di un mondo senza internet ed internet è sostanzialmente una “scena” musicale.
Forse mi sbaglio, ma sarebbe sbagliato (per quanto forse necessario?) attribuire un’eventuale Golden Age a questo evento, per quanto possa essere indubbio il suo ruolo di catalizzatore.
Mi piacerebbe invece essere in grado di capire se porterà ad una nuova dignità professionale di musicisti ed addetti ai lavori. Non sarebbe bellissimo rendersi conto di quanto abbiamo davvero bisogno della musica ed ancor di più della musica dal vivo? Non ci mancano a tal punto i concerti ed i Festival da capire che è davvero necessario trovare un modo di sostenere come si deve chi ci regala tutto questo?
Io non credo alla narrazione pro-streaming dei concerti che si è creata in queste settimane. A me sembra che tutto gridi disperatamente: ridateci i locali, ridateci i club, ridateci perfino il tanfo di sudore e l’alcol appiccicoso sotto le suole.
Marco: Fatico ad avere una visione del “dopo” e soprattutto fatico ad avercela positiva. Il problema principale è che da questa cosa usciremo mediamente con qualche risorsa in meno in tasca. E questo è un dettaglio che spargerà i suoi effetti all’incirca in ogni piega del discorso della musica, sia che si tratti di chi suona, di chi fa suonare, di chi vorrebbe andare a sentir suonare. Di questo mare di streaming qualcosa resterà. Non sarà il centro del discorso perché il centro del discorso saranno nuovamente i luoghi fisici ma sarà uno strumento usato a favore di quei luoghi e non al posto di, usato con più consapevolezza e competenza.
Paolo: Molte meno risorse in tasca… è notizia del 7 aprile che l’Agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite stima per il dopo emergenza una perdita di un equivalente di 195 milioni di posti di lavoro a tempo pieno, con il rischio per alcuni settori per 1,25 miliardi di lavoratori. Provate a rileggere le cifre, io ci ho messo un po’ per concepirle nella testa: 1,25 miliardi. Dunque per il business della musica la vedo nerissima: già il settore era stato azzoppato dal download illegale negli anni Zero, negli ultimi tempi si era un po’ rialzato per via degli introiti dei live ma questi con tutta probabilità spariranno probabilmente per i prossimi due anni. Incassi dello streaming? Gli artisti che “ci campano” grazie a Spotify e affini si trovano con il lanternino (4 dollari ogni 1.000 streaming, ricordiamolo), e se a ciò consideriamo che ci sarà molta meno gente che potrà spendere per una cosa “voluttuaria” (non per noi, però la musica non riempie la pancia) come la musica, gli artisti li vedo in una situazione drammatica di “dire straits”, come dicono gli americani.
Certo, ci sono i lati positivi: la tecnica oramai permette di fare musica con pochi investimenti, con un pc e poco più, con una resa finale professionale, per cui si continuerà lo stesso a far uscire album e canzoni. Magari però, in tempi duri, quando la gente dovrà pensare – purtroppo – ad altri problemi, diminuirà l’offerta spropositata (e inutile) che vediamo ora, e ciò non è propriamente un male. Pochi ma buoni, dice qualcuno.
murales nell’articolo: @Emmalene Blake (ESTR) a Dublino
in home: @Nello Petrucci a Roma