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L’illustrazione dedicata ai due fondatori di Dischord, Jeff Nelson e Ian MacKaye, è stata realizzata da Roberta Antonelli.
La Dischord Records di Washington, una delle etichette discografiche simbolo dell’underground americano, ha messo in streaming gratuito su Bandcamp il suo catalogo: dal 1980 ad oggi. Non c’è quindi occasione migliore per (ri)scoprire sette gruppi della creatura di Ian MacKaye e Jeff Nelson: non abbiamo scelto i più famosi, bensì i più significativi, anche se minori, e spesso sconosciuti al grande pubblico. Alcuni dei nomi dai noi analizzati sono caduti nel dimenticatoio, altri sono stati purtroppo sottovalutati in rapporto al valore artistico creativo dato alla scena musicale degli anni ottanta, novanta.
In ordine cronologico, attraverso la storia di sette band, ripercorriamo i quarant’anni della Dischord Records:
Gray Matter
(1983-1986 / 1990-1993)
Washington D.C. è una città pianificata a tavolino: è divisa in quadranti (NW, NE, SW e SE) con lunghe avenue diagonali che si irradiano dal Campidoglio e hanno il nome di uno Stato e griglie ortogonali di strade che prendono orizzontalmente il nome da una lettera e verticalmente seguono l’ordine numerico. Tra le strade più famose c’è la U Street, antica arteria della scena jazz, epicentro dei riot del Sessantotto trasformatasi negli anni Novanta, dopo una fase di declino e criminalità degli anni Ottanta, nel distretto più in voga per club e locali notturni. La prima sera che ho messo piede a Washington D.C. dove avrei vissuto per qualche mese, mi sono fiondato al Black Cat, ultimo retaggio del glorioso passato hardcore-punk e go-go di D.C., che sorge sulla quattordicesima strada NW nella zona dello U Street corridor, non lontanissimo dalla nuova sede del 9:30, l’erede di un altro locale simbolo della scena cittadina, il 9:30 Nightclub, nato a sua volta nel 1980 dalle ceneri dell’Atlantis. Difficile perdersi e difficile non imbattersi tra i bar dei vari livelli della struttura nel batterista che nel 1993 aveva fondato il club, Dante Ferrando. Tra gli altri soci c’era un altro batterista più famoso, Dave Grohl, ma quella è un’altra storia. Ogni cinque anni per gli anniversari importanti del Black Cat, Ferrando riforma puntualmente i suoi Gray Matter in ricordo degli antichi fasti. I Gray Matter del resto quando uscirono con un inedito su Dischord, erano già una band che si era sciolta e rimescolata, come accadeva spesso nei progetti di quel movimento di precoci e visionari talenti della capitale.
La storia della band inizia dieci anni prima, nell’estate del 1983, da un’idea di tre giovani compagni di liceo. Mark Haggerty, Dante Ferrando (già attivi nell’iconica street-punk band dell’irrequieta scena skinhead, gli Iron Cross, da cui quest’ultimo si defilò per l’oltranzismo violento dei suoi adepti) e Geoff Turner reclutano al basso Steve Niles, quello stesso Steve Niles che oggi è uno dei più celebrati fumettisti horror grazie a classici del genere come “30 Days of Night”. Il primo disco è registrato ovviamente al cruciale Inner Ear Studio insieme a Ian MacKaye e prende il titolo dal nome dello storico ristorante vegetariano gestito a Dupont Circle dal padre di Dante: “Food For Thought”. L’album esce nel 1985 su R&B Records e inaugura la collaborazione e amicizia militante con il co-fondatore di Dischord che avrà il tempo di pubblicare appena un anno dopo un EP altrettanto fulminante, “Take It Back”, prima dello scioglimento forzato del quartetto, in seguito all’iscrizione all’università di Haggerty. Alla fine degli anni Novanta Dante Ferrando si unisce agli Ignition, mentre gli altri formano i leggendari Three insieme all’altro fondatore di Dischord, Jeff Nelson. Nel 1990, in piena fase post-hardcore, Dischord decide di ripubblicare l’album d’esordio insieme a “Take It Back” traghettando i quattro verso una veloce reunion di un anno che li porterà a pubblicare, nel 1992, “Thug”, per poi sciogliersi definitivamente.
Nel 2023 il locale di Ferrando festeggerà i suoi trent’anni e sapete già da ora in chi potreste imbattervi tra palco e bancone.
(Piero Merola)
Rites of Spring
(1984-1986)
La fine può essere l’inizio. Spesso. Quando ciò succede, solitamente, si assiste ad una specie di esplosione, un big bang che genera scorie che vivono di luce propria. Me la immagino così la brevissima ma fondamentale scintilla Rites Of Spring. Brandan Canty e Guy Picciotto, prima di entrare nei Fugazi, dimostrano al mondo che non esiste carriera senza semi gettati nel terreno giusto, annaffiati, curati, coltivati. Siamo nel 1985, Washington D.C., l’hardcore qui è argomento serio che però non vuole ghettizzarsi, ma continuare ad evolversi, mantenendo lo sguardo attento a quello che succede fuori. Ian Mackaye, giovanissimo ai tempi titolare della Dischord Records, lo aveva intuito, aveva capito che nel progetto dei suoi futuri compagni (quanto suona bene questo termine) di merende, c’era il seme germogliante della non-omologazione. Attitudine integralista sulle vicissitudini politiche ma grandissima apertura mentale nella sfera musicale. “End on End” è semplicemente un fiero baluardo di apparente musica hardcore che cela al suo interno una miriade di segnali che verranno poi raccolti dalle generazioni a seguire; apparente perché la velocità e la violenza nichilista cela le diverse anime di un gruppo che abbraccia il rumore e la melodia e al contempo beffeggia quell’immagine harcorde-punk con lavoro di cesello, figlio della determinazione e di grande intuizione. Insomma, tutto sembrava già scritto in queste pagine di musica universalmente libera; invece quello che successe dopo nei Fugazi, è storia ben nota. Un piccolo semino piantato con saggezza in un terreno fertile. Tutto, intorno, avrebbe potuto anche bruciare. Ma la cura verso un’idea, quando questa è coltivata con passione, non può generare semi cattivi. Questa è la Dischord Records. Onore alla Dischord.
(Nicola Guerra)
The Nation of Ulysses / The Make-Up
(1988-1992 / 1995-2000)
Nell’universo di pubblicazioni della Dischord la figura di Ian Svenonius rimane, soprattutto con riferimento agli anni ’90, l’altra faccia della medaglia dell’etichetta. Approccio musicale e filosofico diverso rispetto ai Fugazi, ma stesso impatto.
I Nation of Ulysses arrivarono come un fulmine sulla scena di Washington: l’esordio con “13 point program to destroy America”, prodotto da Ian Mackaye, lascia subito il segno. E ancora di più colpisce l’attitudine punk che Ian Svenonius, Steve Gamboa, James Canty e Steve Kroner mettono sulla bilancia durante le esibizioni dal vivo. La dimensione live della band è assolutamente d’impatto, fisica, in particolare con Svenonius che condisce ogni show di stage diving, lanciandosi letteralmente dal palco in modo violento: più volte riportando fratture e qualche volte causando infortuni a componenti del pubblico. Al vero e proprio documento programmatico del debutto, fa seguito nel 1992 “Plays Pretty for Baby”, che ribadisce la politicizzazione dei brani (testi e musiche) dell’album dell’anno precedente. La band si scioglierà l’anno successivo: Svenonius e compagni ritengono che quel progetto non abbia più nulla da dire.
Dopo un periodo di due anni, la nuova linfa arriva con i Make-up, un quartetto che vede ancora assieme Svenonius, Gamboa e Canty ai quali si aggiunge la bassista Michelle Mae. Mentre da un lato si smorzano i toni dello stile musicale che passa a un mix di garage rock, soul, e altro, con la stessa band che inizia a definire il suo stile “gospel yè yè”, dall’altro viene radicalizzato tutto il resto. Le esibizioni dal vivo diventano un’autentica collaborazione tra gruppo e pubblico, con quest’ultimo continuamente sollecitato da Svenonius. Il frontman completa il suo personalissimo stile, diventando un’esplosiva via di mezzo tra Iggy Pop e un James Brown punk. A questo si unisce un’estetica di ispirazione 60s con abiti a creare quasi una sorta di “uniforme” per i 4 componenti. Il primo disco “Destination: Love – Live! At the Cold Rice” (prodotto da Guy Picciotto) riprende la moda tipicamente 60s di sovrapporre le voci del pubblico come sottofondo di registrazioni in studio. Altri due dischi su Dischord (oltre ad altri due pubblicati su K records) e i Make-Up completano il loro “piano quinquennale”, come lo definì Svenonious, per poi sciogliersi.
(Francesco Melis)
Hoover
(1992-1994)
Con la pubblicazione di “The Lurid Traversal of Route 7”, primo ed unico disco degli Hoover, si chiude idealmente la prima ondata emo/posthardcore americana, nata solo dieci anni prima con album come l’omonimo dei Rites of Spring (sempre su Dischord): la proposta musicale del quartetto – formato da Joseph McRedmond (chitarra, voce), Fred Erskine (basso, voce), Alex Dunham (chitarra, voce), Christopher Farrall (batteria) – è senz’altro figlia del sottobosco sonoro post hardcore di fine anni ottanta, primi novanta ma sembra voler andar oltre certi stilemi di genere, abbracciando strutture ritmiche più articolate, cerebrali e più vicine alla scrittura dei gruppi della scena noise dell’epoca. Gli Hoover, con brani come “Regulator Watts” o “Cable”, pongono involontariamente le basi per le geometrie irregolari di band come June of 44. Il debutto su disco degli Hoover segna quindi contemporaneamente la fine di un percorso musicale e l’inizio di un nuovo approccio creativo: il post hardcore nel 94-95, anche grazie ad altri gruppi come i Drive Like Jehu, sta intraprendendo strade, idee sonore diverse.
(Monica Mazzoli)
Slant 6
(1992-1995)
Washington DC, estate del 1992, nascono le Slant 6: Myra Power, Christina Billotte e Marge Marshall a prendere in prestito il nome da un vecchio motore montanto sulle Dodge e a ad armarsi sonicamente in compagnia di due numi tutelari come Ian MacKaye e Don Zientara. Dopo una manciata di canzoni registrare nel 1993 e un lungo tour americano, arriva il primo dei due dischi della band, “Soda Pop-Rip Off”, ancora adesso fresco e ronzante di chitarre belle rugginose al servizio di pezzi che corrono felici tra new wave, noise e le inconfondibile melodie tanto rotonde quanto storte, tipiche di quello che per vecchi come me continuerà ad essere identificato come indie. Non mancano tracce (per quanto labili) della sorta di funky marmoreo affine a quanto prodotto dal compare di etichetta Ian Svenonius. Al netto di vari EP e singoli resta rilevante il secondo e ultimo lavoro sulla lunga distanza, “Inzombia”, il quale non si discosta molto da quanto espresso precedentemente, ma ne conserva carica incendiaria e ne guadanga in profondità di scrittura. Si intravede una sorta di evoluzione nel basso letargico di “Ladybug Superfly” o nel lento incedere di “Victim Of Your Own Desires”. Ancora melodie azzeccate sottotraccia, qualche debito in meno con I Joy Division, qualcuno, inevitabile, in più con l’estetica emo’n roll che si stava sviluppando in quel periodo. La title-track, posta in chiusura, è lì a mo di epitaffio: slabbrata, lunga sui sette minuti, un ottimo art rock che trova posto tra distorsioni, organo e variazioni costanti. Cosa sarebbe potuto essere ancora?
(Giampaolo Cristofaro)
Faraquet
(1997-2001)
I Faraquet, trio formato da Devin Ocampo e Jeff Boswell degli Smart Went Crazy (band sempre su Dischord) e da Chad Molter (amico di Ocampo dai tempi di Los Angeles), rompono gli schemi di genere, quantomeno del post hardcore e forse anche del math rock (“etichetta” che spesso si sono ritrovati addosso). In “The View From This Tower”, primo ed unico disco del gruppo uscito nel 2000, Ocampo – losangelino che colpito dalla via dell’Do It Yourself si trasferisce a New York (prima) e Washington (poi) – ribalta il concetto classico di disco post hardcore punk: di nuovo alla chitarra, dopo aver suonato la batteria negli Smart Went Crazy, crea sicuramente un suono tagliente da power trio (punk per certi aspetti), ma si fa autore e interprete di una linea chitarristica che guarda al jazz, agli svolazzi dei fiatisti jazz, più che dei chitarristi e come, certo prog (forse), ricerca il senso della melodia e il gusto per arrangiamenti dinamici, coloriti da una strumentazione non necessariamente rock come la tromba di “Songs for Friends to Me” o il violoncello di “Conceptual Separation Of Self”. Non c’era etichetta migliore della Dischords per pubblicare un album così fuori dai generi e dalle mode.
(Monica Mazzoli)
Black Eyes
(2001-2004)
I Black Eyes sono durati un battito d’ali, dal 2001 al 2004: giusto un paio di album prodotti da Ian MacKaye, l’omonimo del 2003 e “Cough” del 2004. La musica del quintetto, che ad oggi sembra un po’ dimenticata da tutti e da tutto (e non si sa perché), ha coniugato in chiave post hardcore – alla grande e meglio di tante altre band – il groove delirante della scena free jazz punk inglese degli anni ottanta contaminandolo, sporcandolo con i ritmi spigolosi, impazziti della no wave newyorkese della fine degli anni settanta. Risultato? Un suono esplosivo, abrasivo che dal vivo, durante i concerti, era ancora più travolgente.
La line-up al fulmicotone, formata da due bassisti (Hugh McElroy e Jacob Long), due batteristi (Dan Caldas e Mike Kanin) e un chitarrista (Daniel Martin-McCormick), è stata, ovviamente, la vera chiave di volta del groove dei Black Eyes: sempre in continuo divenire e sferzante e senza peli sulla lingua anche nei testi che contenevano spesso riferimenti poetici: è il caso di “A Pack of Wolves”, che cita alcuni versi di “Stepfather: A Girl’s Song” del poeta afroamericano Yusef Komunyakaa, o di “Letter to Raoul Peck” che rimanda a “Harlem Night Club” di Langston Hughes.
(Monica Mazzoli)