Share This Article
When in trouble, go big. È da uno degli adagio più celebri in questa bulimica parte di mondo che si potrebbe iniziare a scrivere del nuovo lavoro di Will Toledo della sua creatura Car Seat Headrest. In un arco di tempo appena superiore ai cinque anni il giovane songwriter della Virginia è passato dal pubblicare su Bandcamp manciate di album auto-prodotti in cameretta a diventare uno dei nomi di punta della Matador Records, storica etichetta dell’indie-rock statunitense: una crescita a dir poco repentina le cui responsabilità conseguenti avrebbero messo le vertigini a chiunque. E infatti è quello che è successo anche a Toledo. Che però, seppur incastrato nei casini di ansie da prestazione sempre sempre più pressanti, ha provato a pensare in grande, scommettendo prima di tutto su un nuovo sound. Il risultato di questo sforzo – che, lo diciamo subito, è solo parzialmente andato a buon fine – è “Making A Door Less Open”.
M.A.D.L.O. è un album nato con la precisa intenzione di suonare diverso rispetto ai dischi precedenti, sia quelli casalinghi pubblicati su Bandcamp, sia quelli usciti su Matador fino ad ora – “Teens Of Style” (2015), “Teens Of Denial” (2016), la rielaborazione di “Twin Fantasy” (2018) e il live recording di “Commit Yourself Completely” (2019). Lo dice lo stesso interessato in una lunga intervista su Stereogum che alla base di questo nuovo album c’è la volontà di allontanarsi dal sound indie-rock chitarrocentrico e dall’approccio di scrittura ultra-personale e intimo che avevano contraddistinto i lavori prodotti fino ad oggi. E questo anche solo per una mera questione di convenienza, come dice in una plastica ammissione: «I think if we had continued to do something that was self-reflective or revisiting the past, it would have been hard to keep people’s interest — or keep my own interest, for that matter».
La prima importante novità è che “Making A Door Less Open” è l’album in cui i Car Seat Headrest concludono il loro personale processo di evoluzione: non sono più solo il gruppo di Will Toledo, ma una vera e propria band, fatta e compiuta, in cui i singoli componenti diventano co-autori del prodotto finale. Un cambiamento non banale, senza il quale probabilmente questo disco suonerebbe estremamente diverso. Tutte e undici le canzoni che compongono il pacchetto palesano un’esplorazione curiosa e a tratti temeraria di territori musicali finora rimasti inesplorati: un certo tipo di funk, se così lo si può identificare; l’utilizzo dell’elettronica, e non solo in maniera ornamentale, ma come elemento portante delle composizioni; il cimentarsi con modelli di scrittura che si avvicinano al rap, tanto per fare qualche esempio. Nella opening-track “Weighlifters” la litania solitaria di un synth che serve ad introdurre un’elaborazione funk che ricorda da lontano “Life During Wartime” dei Talking Heads – se solo fosse stata scritta nel 2020. È una traccia che non a caso menziona immaginari fisici, corporei: per uscire dalla propria forma ordinaria, i Car Seat Headrest sembrano aver fatto parecchio allenamento. Sudore, dedizione, impegno: oltre allo stomaco, per cambiare (quasi) tutto serve avere anche i muscoli necessari per farlo. E questa band li dimostra: in “Deadlines (Thoughtful)” sorprendenti atmosfere sad disco ricordano i primi Hot Chip o alcune cose minori in casa DFA Records; sempre sul sentiero tracciato da James Murphy, “Can’t Cool Me Down” riprende lo struggling danzereccio degli LCD Soundsystem; “Hymn – Remix” (la versione che si ascolta in streaming) giochicchia divertita in campo EDM, grazie allo spazio che si ritagliano le pulsioni compositive del batterista Andrew Katz; dentro a quel pezzo piacione che è “Hollywood”, in cui non pochi sentiranno l’eco di Beck epoca E-Pro, coesistono perfettamente chitarre catchy e un recitato che tenta di approcciare a modo suo le saturazioni liriche del rap.
In questo sistema di eterogeneità tanto voluta quanto controllata, i testi delle canzoni continuano però ad essere tipicamente Toledocentrici. Anche qui come nei lavori precedenti le liriche raccontano di ansie e difficoltà nell’adattarsi alle forme e convenzioni della vita, spesso fatta di sfide interiori ed esterne che non è sempre facile superare. La già citata “Hollywood” è la voce di chi fatica ad incastrarsi nel sistema luccicante della capitale cinematografica, che finisce per mostrare il suo volto corrotto e degenerato a chi non riesce a starne al passo. Nell’autocommiserazione di “Martin” si nascondono note d’amore che si scorgono appena. “Life Worth Missing” fa i conti con quello che letteralmente viene descritto come «cervello disfunzionale» e in “Famous” si prega per mantenere lo spazio di visibilità così a fatica conquistato («Please let this matter» / «Please let someone care about this»). Rispetto ai dischi precedenti però qui la linfa emotiva dentro ai testi sembra non avere più la stessa energia vitale, e viene da chiedersi se questa sensazione non sia data dalla commistione con un sound che innegabilmente si rivela più ingombrante delle sfuriate di chitarra a cui eravamo abituati. Mancano all’appello pezzi con la stessa forza di “The Ballad Of Costa Concordia”, “Drunk Drivers/Killer Whales” (2016) e “Times To Die” (2015), e per essere ancora più chiari la si potrebbe dire così: non è che dando maggior spazio ai Car Seat Headrest, intesi oggi come band, Will Toledo ha involontariamente commesso l’errore di nascondersi troppo? Viene da chiederselo, anche alla luce del nuovo set visivo pensato per i live prima che il Covid-19 cambiasse tutte le regole in gioco: una maschera antigas che annullava la riconoscibilità del frontman. Purtroppo però non possiamo che rimanere con il dubbio irrisolto, anche perché il momento più toccante dell’album forse lo si trova nel tormento di “There Most Be More Than Blood”, la traccia che più di tutte le altre guarda a quei brani così viscerali, onesti e commoventi che in passato avevamo così tanto apprezzato.
71/100
(Enrico Stradi)