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Susan Rogers è una professoressa americana, ingegnere del suono e produttrice, nota per essere stata l’ingegnere dello staff di Prince durante il periodo 1983-1987 in album come “Purple Rain”, “Around the World in a Day”, “Parade” e “Sign o’ the Times”. Ha anche lavorato con David Byrne e Tricky. È professoressa associata nei dipartimenti di produzione musicale, ingegneria e arti del Berklee College of Music.
L’abbiamo intervistata, nel filo dell’analisi dei cambiamenti nella produzione e distribuzione musicali, già esplorati con le interviste a Shain Shapiro e Rasmus Fleischer
Dal momento in cui Alan Lomax raccolse una voce , un canto che raccontava storie di contadini e braccianti sfruttati è passata, tecnologicamente parlando, un’era geologica.
L’eredità di quel momento però riecheggia e si respira in ogni studio di registrazione e da quel semplice gesto di una registrazione su bobina è scoppiato un big bang culturale che ha visto, nel corso del tempo, la comparsa e lo sviluppo di figure come tecnici, ingegneri e produttori.
Dai primi anni ’30 è cambiato tutto, ma avidi di conoscere e speranzosi di interpretare il futuro del suono, abbiamo chiesto a Susan Rogers, ora professoressa al Berklee College of Music, di tracciare un percorso che lega i cambiamenti, le epoche storiche e i sound che ci caratterizzano.
È difficile rendere tutta la grazia, la potenza e l’urgenza creativa che c’è in una persona come Susan Rogers. Il suo lavoro per anni accanto ad artisti come Prince, David Byrne e infiniti altri si alimenta tramite la capacità del pensare, re-immaginare il suono, e anche aspetti del genere abbiamo toccato nella nostra chiacchierata.
La grande svolta nel modo di concepire il sound design, ci ha spiegato la Rogers, è legata al fatto che: “Ora possiamo creare suoni da strumenti che in realtà non esistono, allo stesso modo in cui possiamo guardare programmi televisivi con zombie e draghi che sembrano assolutamente realistici”. Spingere in questo modo l’immaginazione verso la creazione di nuovi territori e mondi non è più solo una prerogativa del cinema o dell’immagine.
Il grande cambiamento è legato al passaggio al digitale, e la domanda più appropriata riguardo a questo tema è stata posta da Mark Katz nel suo saggio “Capturing Sound”: “How have composers changed their work in response to the possibilities of this technology?” (Come i compositori hanno cambiato il loro lavoro in risposta alle possibilità di questa tecnologia?). Il quesito è direttamente legato alla nostra capacità umana di recepire e concepire una rivoluzione culturale del genere.
Gli uomini hanno però tempi molto lenti nel reagire ai mutamenti estremi: “La tecnologia e le idee cambiano molto rapidamente – ha spiegato la Rogers- ma le persone cambiano molto lentamente. L’evoluzione impiega decine di migliaia di anni per promuovere un cambiamento nell’intera specie”. Tutta questa gradualità implica semplicemente che: “le persone continuino a volere musica che faccia quello che fa solita fa per noi: emozionare, farci danzare, farci pensare e farci sentire come se appartenessimo a qualcosa di più grande”.
L’analisi del cambiamento delle tecnologie del suono coinvolge in prima persona l’ascoltatore. La relazione tra l’innovazione tecnologica e l’ascoltatore è fondamentale da analizzare per cercare di capire il ruolo della cultura hi-fi (high fidelity) come motore culturale della rivoluzione musicale tra il 1950 e il 1970. Al centro di quella grande innovazione tecnica c’è stata probabilmente la speranza di poter essere, con un nuovo impianto, come in una vera sala da concerto.
L’innovazione ha portato con sé novità non solo legate all’ascolto, infatti chiave è stato l’emergere di figure come produttori e ingegneri del suono. Il ruolo e il fascinano legato a queste professioni è anche basato sull’essere come demiurghi al servizio del suono, della musica.
In studio oggi per un artista la figura come quella del produttore è più importante che mai: “È molto meglio avere più di una mente che lavora su un’opera d’arte musicale – spiega la Rogers – questo permette di considerare non solo il punto di vista del creatore ma anche quello dell’ascoltatore”.
In passato progettare un lavoro per un artista era estremamente complesso e le attrezzature erano rare e costose da reperire: “Gli ingegneri avevano accesso alle attrezzature solo quando venivano assunti per un progetto o se lavoravano in uno studio. Il produttore in passato poteva lavorare solamente con 24 o 48 tracce, per cui i suoni e le performance dovevano essere pianificate con largo anticipo”.
Il momento di svolta è legato sicuramente agli anni ’80.
Dagli anni ’80 è subentrata una trasformazione radicale anche nell’estetica della musica apprezzata dal pubblico. Successivamente l’arrivo sulla scena dell’hip hop e del rap ha rivoluzionato il modo di ragionare sulla melodia, sul ritmo e altri elementi: “Da qualche decennio stiamo godendo di nuove diverse forme di ritmo, tra cui il reggaeton, la trap e la dubstep, ma sembra che siamo finalmente pronti per qualcosa di nuovo.”.
Sembra quasi che l’idea fondante di questi nuovi generi non sia quella di rompere le regole o un diktat culturale come poteva accadere in avanguardie musicali degli anni passati, oggi si cerca piuttosto di plasmare e ripensare le regole: “Gli artisti sperimentano in modo naturale per vedere fino a che punto riescono a deformare e rimodellare il suono e far sì comunque che questo sia ancora riconoscibile e piacevole”. Siamo dentro ad un vero e proprio, come lo definisce la Rogers: “Mercato delle idee”, in cui l’intuizione è una parte fondamentale del processo.
In questo “marketplace” allora è essenziale definire e centrare l’importanza di quella che potremmo definire intelligenza musicale. In questo caso specifico stiamo intendendo l’intelligenza come una “capacità di elaborare informazioni e di separarle in rilevanti e irrilevanti, a seconda del contesto”.
“La tecnologia digitale – ha spiegato la Rogers- ha permesso di esprimerci in modi nuovi, quindi sì, ha cambiato le forme in cui potremmo pensare all’intelligenza musicale, ma le menti umane che creano le opere sono le stesse di sempre”.
I principi intellettuali per gli artisti si formano e strutturano in quelli che sono principi creativi che guidano il lavoro in studio e nella composizione. Tra le principali collaborazioni di Susan Rogers c’è stata sicuramente quella con Prince, un binomio creativo che ha dato vita ad un periodo straordinario di musica tra la prima e la seconda metà degli anni ’80.
“Prince faceva musica senza pensare ai singoli e alle classifiche. Quando lavoravo con lui – ci ha raccontato la Rogers – era sempre concentrato sull’esperienza dell’album, non sull’airplay radiofonico. Lui ha creato musica influenzata dal rock, dal soul, dal funk, dal blues e dal jazz senza interpretare in modo esclusivo uno di questi stili. La sua musica infatti è apparsa nelle classifiche pop, rock e R&B. Il suo principio creativo era quello di esprimere ciò che lo faceva sentire bene”.
Il culmine di questo ragionamento su Prince sembra essere nelle parole della Rogers che spiega come Prince: “Voleva suonare come sé stesso”. Il motto di Thelonious Monk “The genius is the man who is most like himself”, che la Rogers ha ripetuto, può racchiudere quel principio creativo di cui parliamo quando cerchiamo di raccontare un rapporto intelligente e proficuo tra autore e produttore.
Oltre all’aspetto esclusivamente creativo però c’è l’approccio pratico ai diversi tool che hanno cambiato il lavoro in fase di registrazione. “Quando ascoltiamo dischi fatti nel secolo scorso – ha detto la Rogers – possiamo facilmente riconoscere gli strumenti che ascoltiamo. I dischi di oggi rendono quasi impossibile questo esercizio perché gran parte di quello che ascoltiamo è stato creato interamente al computer”. Tutto questo crea una diversa percezione del suono in cui si possono rintracciare le diverse sensibilità estetiche degli ascoltatori. Il ragionamento porta a capire che c’è un’influenza molto forte, per pubblico e artisti, da parte dell’ambiente sonoro che viviamo fin dall’infanzia: “Gli psicologi dicono che ogni nuovo brano musicale che ascoltiamo è filtrato in realtà da tutte le canzoni che abbiamo ascoltato”.
In questo clima di iper-personalizzazione culturale attecchisce in pieno quello che tecnologicamente è il passaggio dall’analogico al digitale. La Rogers ha spiegato come “Il passaggio dall’analogico al digitale ha cambiato tutto, dalla produzione, all’ingegnerizzazione, al missaggio, alla composizione, alla performance”.
La parola per descrivere questo è rivoluzione e coinvolge anche generi più standardizzati e canonici come il jazz e il rock. In questo momento storico, ha spiegato la Rogers: “l’appetito culturale è rivolto verso nuovi generi” e allora è lecito per noi chiedersi se ha ancora senso parlare di generi musicali, oppure se ci troviamo in un momento storico in cui conta semplicemente la capacità creativa di ripensare e modellare il suono? Se è così probabilmente il passaggio dall’analogico al digitale e il cambio nei paradigmi della produzione musicale coincidono con una libertà e una capacità di espandersi in campo artistico e intellettuale senza precedenti.
(Gianluigi Marsibilio)
Studio shots di Jandro Cisneros