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E il quattro venne da sè. Il nuovo progetto solista di un componente dei Radiohead è firmato questa volta da Ed O’ Brien, il belloccio del gruppo, chitarrista e backing vocalist mai troppo celebrato (eppure fondamentale alla riuscita di “Weird Fishes/Arpeggi” per citare un solo pezzo degli oxfordiani). Se per Thom al centro c’è la sperimentazione, per Philip il lato cantautorale e per Jonny quello da soundtrack, in “Earth” troviamo una concezione di musica a 360 gradi in cui la forma prevale sulla sostanza, con un ricco parterre di ospiti e l’aiuto in produzione dei veterani Alan Moulder e Flood più Catherine Marks (Foals, The Killers).
Il disco mostra due lati complementari di Ed: quello fondato su una scrittura alternative rock come nell’opener e catchy “Shangri-La” e il più intimista e acustico che ci regala l’emozionante duetto con Laura Marling di “Cloak of The Night”. L’uso di pattern elettronici fa il resto, impreziosendo “Brasil” che da ballad radioheadiana di primi anni zero (c’è Colin Greenwood al basso) vira su un refrain techno a metà strada tra Underworld e Gold Panda; oppure in “Banksters”, pezzo tirato dal forte sapore new-wave che non sfigurerebbe in “Exciter” dei Depeche Mode. Per quanto riguarda i testi emergono sia romanticismo (My days are spent within the sound of your voice/My nights are spent within the reach of your hand/Moving together now, we won’t ever stop, da “Deep Days”) che desiderio di cambiamento – It’s time for me to say goodbye To everything I know/Just one more voyage we all must undergo nella psichedelia gentile di “Sail On”. Il brano più temerario del lotto finisce per essere “Olympik”, una combinazione di suoni madchester, chitarre funkeggianti e la batteria dei Simple Minds di “Theme For Great Cities” aggiornata al 2020 per otto lunghi minuti.
“Earth” è lavoro senz’altro generoso ma che vorrebbe (e dovrebbe) suonare più originale data la caratura dell’artista in questione. Vedremo se un secondo episodio chiarirà questi miei dubbi.
67/100
(Matteo Maioli)