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Probabilmente è perché siamo tutti orfani dei Portishead a tal punto che, appena qualcuno ci dona qualche sensazione in quella direzione lì, tiriamo su subito le orecchie come volpi in agguato in venerato e attentissimo ascolto. E se è per questo, e quindi per una ragione nostalgica, facciamo subito pubblica ammenda. Però non ci si riesce a togliere dalla testa che il debutto del duo losangelino è una roba che ci voleva. In un mare di poptimism dove è rimasto lo spazio per la musica nera come la pece? Chi ci fa sprofondare nel nostro inconscio? Chi ci spaventa per farci ricordare di essere ancora vivi?
I Drab City lo fanno, a tal punto che definirlo dream-pop è altamente limitativo, perché si stenta a riconoscere l’ambito del sogno: tranne che quando la leziosità un po’ prende il sopravvento (ma è quasi solo il caso di “Just Me & You”), è la notte la vera protagonista di questi racconti urbani che tratteggiano paesaggi degradati e infimi personaggi, fin dalla barcollante intro strumentale di “Entering Drab City” (che rende evidente l’intenzione di portare l’ascoltatore all’interno di questi immaginari sobborghi metropolitani sporchi e grigi) e poi continuare nella esemplificativa “Working For Men”.
Non hanno bisogno di grandi minutaggi i Drab City per creare questa inquietudine, due minuti e via verso il successivo abbozzo fatto di flauti scordati, dub soffocato e la voce di Asia (letteralmente più suggestiva di quella di Chris a tal punto che non si capisce bene perché affidare a lui “Live Free & Die When It’s Cool” e “Problem”) che introduce splendidamente in atmosfere hitchcockiane (il trip della parte finale di “Devil Doll”) così come in tentativi di fuga (“Troubled Girl”). Con in più qualche svisata sul jazzy (“Hand On My Pocket”) che comunque si mantiene in direttrice.
Crediamo che abbia ragione Simon Raymonde di Bella Union quando afferma via Twitter che “in 22 anni di Bella Union mi sono innamorato di tante band… oggi vi presenteremo Drab City: so quanto sia stato significativo per me ascoltare la loro musica per la prima volta e oggi lo saprete anche voi. Eccitato”, per cui non resta che annotare “Good Songs For Bad People” come tra i più gustosi debutti di questo scorcio di 2020. E se il voto complessivo non finisce in “Questo Spacca!” è solo per onestà che il disco sia personalmente sopravvalutato per le questioni nostalgiche di cui si discuteva all’inizio. Che poi è anche meglio, vuol dire che c’è margine per i Drab City di scrollarsi di dosso qualsivoglia patina di derivatività e fare, nei prossimi album, il loro personalissimo capolavoro.
75/100
(Paolo Bardelli)