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Tutti gli anni ci sorprendiamo di questo counter che macina annate su annate, e ora è arrivato alla quota tonda di 20: Kalporz è andato online per la prima volta il 26 giugno 2000, e da allora è sempre stato lì con voi, e tra di noi, a scrivere di musica. E perché lo ha fatto? Perché lo si fa? Perché lo facciamo ancora? Ecco, il modo migliore per marcare questo giro di boa è mettere nero su bianco queste motivazioni, il senso di tutto ciò, con la prospettiva di alcuni dei collaboratori di Kalporz.
Grazie a tutti i lettori e agli scribacchini: noi si continua. (Paolo Bardelli)
Come molte altre riviste e magazine online, Kalporz si è scontrato con la difficoltà di raccontare due dei decenni musicalmente più complessi e difficili da catalogare ed etichettare. L’ascesa del formato mp3 come agile strumento di condivisione da una parte all’altra del globo e la successiva istituzionalizzazione attraverso canali più o meno legali hanno, come sappiamo bene, trasformato l’ascolto di un album in un ascolto democratico. Se fino alla prima metà degli anni Zero aveva un senso andare a leggere la propria rivista preferita o la propria webzine di riferimento per avere un’idea preliminare su un’uscita, oggi le cose sono cambiate, radicalmente. Ci si sveglia il venerdì mattina con una media di sei o sette album, per non parlare dei singoli, e nel giro di poche ore il web, tra social e magazine in grado tuttora di orientare, si ha già un parere più o meno consolidato. Una combinazione e composizione di voci e di giudizi sommari che spesso rendono la recensione superflua se non si è pronti a pubblicarla lo stesso giorno di uscita, anzi la mattina dell’uscita, impresa che diventa ardua in caso di album usciti a sorpresa. C’è sempre meno spazio per costruire dei pareri più elaborati e così anche album complessi e strutturati subiscono lo stesso screening, rapido e spietato, di un singolo. Il merito e la missione di Kalporz credo sia quello di provare a raccontare l’oggi contestualizzando percorsi artistici e tendenze, senza inseguire affannosamente queste dinamiche ormai ineluttabili.
Proveremo a farvi scoprire anche nel prossimo ventennio artisti e band semi-sconosciuti prima che sia di nuovo venerdì. E non è un caso che questo ventesimo compleanno si celebri proprio di venerdì.(Piero Merola)
Ce lo si chiede da tanto tempo: ha senso (ancora) scrivere di musica nel momento in cui l’ascoltatore può accedere in maniera facilissima alla stessa e quindi può farsi un’idea autonoma senza passare dal recensore? Potremmo definirlo l’avvenuto fenomeno della “disintermediazione musicale”. Probabilmente si può affermare con una certa precisione che la funzione della critica musicale era diversa fino all’avvento di Napster, perché svolgeva una funzione informativa e divulgativa che oggi è scemata, potendo ritrovare tutte le info basilari su Wikipedia e in rete, e soprattutto una funzione di scoperta e indirizzo, dovendo l’appassionato scegliere cosa comprare e quindi non potendo accedere a tutti i contenuti come ora. Però, se ci pensiamo bene, Kalporz e Napster sono coetanei, quindi forse tutte queste considerazioni sono oramai già superate, direi desuete. L’accesso illimitato allo scibile musicale si aveva già nel 2000, illegalmente certo, ma pur sempre illimitatamente. Oggi quell’aggettivo “illimitato” si è solo sposato con la parola “legale” (il che non è poco, capiamo, però la prospettiva di ragionamento di questo articolo è più sociologica che giuridica). Perciò la risposta al perché scrivere di musica già ce l’avevamo in tasca nel 2000, forse solo ancora non avevamo pensato di guardarci, nella tasca. E qual è?
Quella di raccontare. Il racconto può essere comunicazione, può essere condivisione di una passione, ma può essere anche solo la composizione di una bella letteratura. Sì, uso questo termine: letteratura. Uno scritto ben costruito di parole, che però – per noi appassionati di musica – va a finire lì, a descrivere il rapporto tra la musica e la vita. Ecco l’altra parola chiave: vita. Non perché scrivere di musica deve essere diaristico, anzi quello è alle volte uno dei rischi più grandi, cioè di essere allo specchio, rinchiusi in sé stessi, più masturbazione che amplesso condiviso. Piuttosto perché tutto ciò che non si lega con la vita nasce monco, limitato: la vita si rigenera, e se uno “scrittore di musica” riesce a raccontare di come la musica è nata dalla vita degli artisti e a traslare il come quelle note hanno interagito con la sua vita di scrittore, con le sue sensazioni, per arrivare infine al generale, alla vita di tutti, ai sentimenti di tutti, ecco che allora scrivere di musica rigenera sia lo scrittore che il lettore. Scrivere di musica per me è quindi come un racconto di vita, che è sempre esistito: era quello condiviso oralmente davanti al focolare, era ed è quello scritto in un libro, è e sarà sempre più quello visualizzato su uno schermo di un device. (Paolo Bardelli)
Come per molte altre cose che mi riguardano, non ho un’idea precisa di cosa significhi scrivere di musica, del perché e del come continuare a farlo cercando di stare attaccati ai cambiamenti del mondo. Ma finché c’è Kalporz so che c’è un posto per le persone libere, umili e appassionate, curiose e attente. Di questi tempi, e forse in generale, non è cosa da poco. (Enrico Stradi)
“Scrivere di musica è come ballare di architettura”: frase che sistematicamente salta fuori. Citazione spesso attribuita a Frank Zappa, la reale paternità non è mai stata chiara, però . Molte persone, nel corso degli anni, l’hanno fatta propria e la tirano in ballo spesso quando si discute se abbia senso o meno scrivere di musica. No: scrivere di musica non è come ballare di architettura. Certamente la Musica è un’arte, come tutte le arti (Cinema, Letteratura…) ha una sua complessità strutturale e spesso sicuramente entra in gioco la componente emotiva di chi ascolta. Il generico “scrivere di musica” non ha però un significato univoco: è sfuggente come proposizione. Può voler dire tutto e niente. Scrivere di un disco, di una canzone, di un concerto, di una scena musicale dovrebbe avere portare sempre con sé un plusvalore: non economico, ovviamente, ma culturale. Interpretare una visione musicale, raccontare storie di artisti, comunicare opinioni critiche. Una recensione non serve a far vendere un disco, ma a far cambiare idea su un album, su un gruppo. Dal 2012 su Kalporz cerco di crescere scrivendo di musica. (Monica Mazzoli)
20 anni sono un traguardo raro e sfacciato, in cui il profumo dell’incoscienza delle cose già fatte si mescola con l’odore dell’esperienza da vecchia volpe. Kalporz per me è stato un punto di riferimento prima da lettore, ora da scribacchino. Sembrava strano all’inizio ritrovarsi tra quelle pagine, che seppur virtuali, erano capaci di raccontare una musica diversa, in un modo per me assolutamente nuovo. La differenza tra Kalporz e tutto il resto l’ho capita con il tempo passato in redazione: non sono infatti solamente i dischi giusti, i voti in centesimi o gli approfondimenti più vari, ma sono le persone che hanno dato valore alla storia dei 20 anni di questa rara webzine. Sicuramente hanno cambiato anche un pochino la mia storia, e alla fine è questo quello che rimane, che egoisticamente conta.
20 anni di Kalporz possono essere rappresentati nello spazio che si crea tra noi e le nostre emozioni quando andiamo alla ricerca di nuovi ascolti, una differenza emozionale che ci fa capire il valore di avere un sito che consigliandoti nuova musica sappia interpretare non solo i tempi e la contemporaneità, ma te stesso. (Gianluigi Marsibilio)
Un incipit un po’ scontato lo ammetto, ma i venti di Kalporz, in qualche modo, corrispondono ai miei venti. Riesco a far scivolare la mia firma tra quelle degli scriba che dal 2000 popolano queste colonne negli ultimi mesi del 2014, matricola universitaria con un sacco di voglia di fare e fin troppa self-confidence. Approcciarsi in maniera giornalistica alla seconda metà dei 2010 significa avere a che fare con un mondo discografico disgregato e oltremodo veloce (ci avevo scritto un articolino, vagamente polemico, giusto pochi mesi fa) e l’approccio redazionale mi ha sicuramente aiutato a manovrare in maniera consapevole i miei ascolti, la mia identità musicale e ancora più importante i modi in cui riuscire a comunicare l’arte che più di tutte ho cercato, amato, studiato. E sono molto felice che comunicazione sia la parola d’ordine di questo gruppo di lavoro: senza correre dietro a trend, clickbait e facili plebisciti, ma sempre cercando di raccontare l’attuale in maniera seria, chiara,e approfondita, credendo nei percorsi e non nelle meteore. A vent’anni si è stupidi davvero, come cantava il Maestrone di Pavana. Personalmente prendo questo verso come un motto, e cerco di dare del mio per far sì che Kalporz continui a esser giovane, stupido, divertente e divertito. A vent’anni si ha la forza per provare a cambiare il mondo, quindi go Kalporz, go go go! (Matteo Mannocci)
Il primo approccio alla scrittura fu la non-scrittura, il semplice copia-incolla di emozioni. Mixtape, per i più esperti, la classica cassettina formato C-60, dove potevi usare la musica come prolungamento del tuo stato emotivo. Non sapevi dire perché quel misto di melodia elettrica ti friggeva il cervello ma l’intento era farlo friggere agli altri. Diverso l’approccio quando di mezzo c’era del sentimento; quello che piaceva a te non sempre poteva piacere anche a lei, quindi qui la situazione si faceva più complessa. Questa meticolosa transumanza ha accompagnato i miei anni migliori, mi ha permesso di farmi conoscere attraverso la mia ricerca musicale. Mi sentivo come un piccolo pusher che passando i Sonic Youth sottobanco allo sfigato di turno (ma io ero molto più sfigato di lui) si guadagnava un posto nel paradiso dei nerd. Arrivata la figa è cambiato tutto, come esponevo sopra. Più complessa la metodica, più complessa la playlist, che doveva piacere al sottoscritto per non affossare la reputazione ma doveva portare al risultato. Così ho iniziato ad accompagnare le cassettine con piccole poesie. Frasi ad effetto che mi facessero apparire interessante anche quando per tre quarti del nastro magnetico subissava un frastuono industriale. Parlare di me attraverso la musica; quello che ogni volta mi impongo di non fare quando analizzo un disco e che inevitabilmente contravvengo in maniera barbina. Questo ovviamente non perché la mia vita sia più interessante di quella di Robert Wyatt, ma perché la mia vita senza Robert Wyatt sarebbe certamente priva di interesse. Il mio parlare e scrivere di musica è un atto d’amore verso quegli artisti che cerco di raccontare, e se ci butto aneddoti o personali visioni, è perché QUELLA musica mi ha aperto la mente. Vorrei a volte solo raccogliere dati, analizzare il contesto storico, il percorso musicale dell’artista, della registrazione scadente o della produzione che esalta i suoni, ma alla fine preferisco affidarmi all’istinto e cercare quello che cercavo io quando ho iniziato a consumare riviste. Verità che aprivano mondi, parole che anticipavano cocenti delusioni o colpi di fulmine istantanei. Citerei tutti i giornalisti musicali che, volenti o dolenti, hanno suscitato, ATTRAVERSO SOLAMENTE DELLE PAROLE STAMPATE, una voglia irrefrenabile di conoscenza. Degli artisti in questione, ovviamente, ma anche di probabile empatia. Perché se è vero che siamo quello che mangiamo, quello che leggiamo e che ascoltiamo parla in maniera quasi esaustiva del nostro carattere, del nostro modo relazionarsi al prossimo, della nostra capacità ad essere trasparenti (qui nella mia mente è partita la traccia di apertura dell’ipotetica cassettina da regalare a voi lettori; trattasi de “La mia Rivoluzione” di Marco Parente, anno 2002 – Trasparente). Tutto questo per dire che Zappa sbagliava nell’affermare che scrivere di musica è come ballare di architettura. Perché tutti i libri che ho letto sul baffo di Baltimora, mi hanno permesso di conoscerlo meglio e quindi di conoscere a fondo anche me stesso. Ho imparato a ballare sulle costruzioni in divenire, ad essere interessato al sapere, ad essere curioso e pronto al dibattito. Perché scrivere di musica è ancora, per me, fare quella fatidica cassettina. (Nicola Guerra)
Così come faccio abitualmente per moltissimi artisti a cui sono affezionato o per le nuove band di cui ho appena sentito parlare, ho passato una quantità eccessiva di vita a guardare ogni possibile intervista, comparsata televisiva e video su Youtube di Elio E Le Storie Tese. In una di queste divertenti interviste, non ricordo bene quale, Elio si lamentava dei critici musicali, che secondo lui (citandolo a memoria) “sputano giudizi e sentenze sui lavori degli artisti senza neanche sapere cosa sia un Do”. Il perché si scrive di musica in generale, e soprattutto il perché si scrive di musica nel 2020, è una possibile replica a quella osservazione stizzita. Chi scrive di musica non è un artista incompetente e fallito, come recita un clichè che ancora persiste (ed a volte vero, nel caso del sottoscritto), ma è un ascoltatore particolarmente sensibile, compulsivo e malato, dalla parte del pubblico, che sente nelle composizioni dei musicisti qualcosa in più degli altri, forse anche più dei compositori di musica stessi. Tre note in croce, un brutto accordo distorto, un loop elettronico ripetuto 400 volte possono fare ribrezzo ad uno che la musica la suona e la vive in modo razionale ed accademico, da addetto ai lavori. Ma se presentati in certo modo e con una certa indole, quelle tre note e quegli accordi sono sufficienti per fare provare qualcosa di intenso, irrazionale e sconvolgente che si cercherà in ogni modo di spiegare a parole, provando a convincere anche gli altri intorno a sè che quel “qualcosa” lo possono sentire anche loro stessi. Scrivere di musica su un sito come Kalporz è la versione web di ciò che l’ascoltatore malato e compulsivo fa di solito rompendo le palle agli amici dopo aver scoperto un nuovo disco: si inizia con una premessa generale accattivante, dei riferimenti condivisi e poco noiosi, per poi far capire che in quello che si dice ci si crede veramente, perché lo si è sentito dentro. Ora che, col collasso dell’industria discografica, si è persa la funzione del critico come creatore di sensazionalistici “consigli per gli acquisti”, cosa c’è più utile di un amico pazzo che prova a farti perdere meno tempo possibile in mezzo al mare magnum dei milioni di pezzi disponibili in streaming, assicurandoti che quella quantità eccessiva di vita ce l’ha già persa lui ed è meglio fidarsi? (Stefano D. Ottavio)
Scrivo su Kalporz da più di otto anni. In realtà conosco il sito da più tempo, cioè da quando ci siamo incontrati con Piero ad un concerto dei Violent Femmes a Rimini nel lontano 2007. Il mio background musicale era già notevole – grazie a serate da Dj, trasferte anche oltre regione per gli artisti importanti – ma ancora non respiravo musica, quella sensazione di esserci dentro a trecentosessanta gradi, di dire la propria sulla musica contemporanea oltre che sul rock che ha plasmato le generazioni precedenti alla mia. Kalporz da sempre vive di ricerca del bello in una proposta originale, così ho imparato a scrivere di nuovi generi e tendenze, fondamentalmente con le assegnazioni mensili di Paolo, e a limitare il ruolo del fan: valutando dischi e live in modo oggettivo, cambiando persone e luoghi abituali di frequentazione, si cresce esponenzialmente come ascoltatori. Per questo e altro grazie e tanti auguri a Kalporz, caposaldo tra le webzine del millennio. (Matteo Maioli)
C’era un periodo in cui ricorrevano su facebook discussioni sul senso che aveva lo scrivere di musica negli anni “dieci”. Era roba di quattro-cinque anni fa. Iniziavano da una cosa tipo il perché del dare i voti ai dischi e poi prendevano una piega che per me era molto stimolante. Stimolante quanto può comunque esserlo guardarsi l’ombelico o comunque fare un atto di una ricorsività che non tutti sopportano. Poi in genere finiva quando il discorso veniva portato a forza su temi più seriosi che giravano intorno al professionismo dello scrivere, ai canoni della critica musicale, all’autorevolezza. Ed è lì che la cosa perdeva la sua portata divertente. Che poi è l’equivalente di quando al campetto arrivava quello che (avendone il diritto) si riportava via il pallone facendoti sentire abbastanza disorganizzato e anche un po’ pezzente, volendo. Ecco, perché scrivo (ancora) di musica? Passerei sopra alla componente della voglia di condivisione che mi pare implicita. Scrivo di un argomento che mi emoziona (la musica) e la condivisione con gli altri di quell’oggetto (ancora la musica) sebbene in modo più differito che simultaneo aumenta esponenzialmente il grado di emotività di partenza. Ma soprattutto scrivo perché mi piace cercare una chiave di lettura, cercarla in un dettaglio, cercarla un po’ diversa, aggiungere. Cerco l’angolatura da cui fare la foto, magari con il soggetto di spalle o con uno zoom sul suo zigomo sinistro. Perché magari riesco a raccontare la questione in modo più efficace guardandolo da lì. Oppure perché NON riesco a fare una panoramica come si deve. Ben prima degli anni “dieci” (ma l’abitudine si è trascinata) c’era questo ricorso frequente a quel mantra che giocava sull’equiparazione tra scrivere di musica e ballare di architettura. Ma l’atto dello scrivere di musica, così come lo intendo io è un posto al confine tra il pieno controllo di sé e il movimento più libero. Fa convergere la tendenza a un certo rigore con l’insofferenza verso alcune regole ingessanti. E questo per via del suo controverso contenuto perché la musica la tieni in mano solo se fai pace col fatto che è impalpabile. Quindi rivedrei quella citazione abusata e direi proprio che scrivere di musica è come ballare, punto. E perché ballare su Kalporz? Negli anni l’ho visto cambiare, Kalporz, in modo coerente. Quando lo leggevo mi piaceva perché non mi trasmetteva l’ansia di chi deve coprire tutto e arrivare dappertutto. Ma semmai arrivare (anche lontanissimo) dove ha senso arrivare, dove c’è un motivo che si avvicina al bisogno. Il bisogno come sentire personale e autentico ma portato avanti con la compiutezza degli impegni che ci si prende. Ho trovato in questo un’assonanza con il mio modo d’intendere lo scrivere, così come l’avevo sempre voluta intendere nelle mie “case” di prima: Vitaminic e Rocklab, contesti ai quali ho voluto un monte di bene. Kalporz fa delle sue anime diverse l’elemento di paradossale coesione e, in fondo, se lo ritrova come suo tratto identitario connotante. Prendo cinque pezzi in home a caso e ognuno ha le sue fattezze assai nette. Ma poi ciascuno di quei pezzi è riconoscibilmente e inequivocabilmente una roba di Kalporz quando lo ritrovo nel mare delle cose da leggere in giro. E poi adesso c’è questa cosa che Kalporz di anni ne fa già venti e io sarei qui a ballarci dentro. Anche ora, per dire, metto il punto e poi rileggo come se la musica andasse. E dopo aver ripreso fiato la testa gira ancora per un po’, il ronzìo alle orecchie è quasi piacevole, il buio intorno sembra un post concerto. Grazie mille. (Marco Bachini)
Nietzsche diceva che “senza musica la vita sarebbe un errore” e lo affermava in un periodo in cui questa non era necessariamente connessa al guadagno o alle tendenze del momento ma, la musica di cui parlava, era vista più come una una chiave che apre la porta a tutte le emozioni umane.
Chi decide di scrivere di musica oggi, in fin dei conti è perché, forse, la pensa un po’ così. Non è solo una passione, è qualcosa che tocca le corde del nostro essere, che smuove la coscienza dal torpore di una modernità che ci vorrebbe omologati in un unico credo musicale. In tempi bui come questi, è un privilegio ascoltare, parlare e – soprattutto – leggere di buona musica e Kalporz è una delle poche realtà che racchiude in sé una moltitudine di universi variegati. Sarebbe riduttivo da parte mia provare a descriverlo ma diciamo che, se c’è una rivista che oggi Nietzsche leggerebbe, quella sarebbe sicuramente Kalporz anzi, se avesse potuto, l’avrebbe fondata lui.
Lunga vita a Kalporz, lunga vita alla musica! (Simona D’Angelo)
Personalmente, ciò che ho imparato in questi anni di giornalista musicale free lance è che più il tempo passa più aumentano i media con i quali ci interfacciamo e, di conseguenza, più forte si fa la necessità di creare sentieri che aiutino a far ordine nella nostra mente e in quelle di chi legge. Da anni seguo e apprezzo Kalporz proprio perché si prende la responsabilità e l’impegno di fare questo attraverso un approccio che stimola il lettore e lo rende partecipe degli stessi processi di giudizio e analisi. Credo che lo scopo di chiunque scriva di musica oggi non sia tanto quello di esprimersi con sicurezza granitica su una certa opera quanto quello di fare in modo che altri possano esprimersi con le proprie chiavi di lettura. Occorre anche esprimere giudizi, sia chiaro. Senza un giudizio, che potrà essere condiviso, avversato, anche combattuto da chi legge, il giornalista musicale finirebbe per diventare una sorta di erudito. Ma, in questo mondo confusionario e liquido, bombardati come siamo da informazioni contraddittorie e da una marea di proposte nuove e vecchie che saturano il web e i nostri cervelli, fornire ai lettori una linea è fondamentale. E Kalporz questo lo fa con chiarezza, e sono contento di far parte di questa avventura. E ancora più cruciale è fornire al lettore gli strumenti giusti perché ciascuno crei in autonomia una propria linea. Questa dev’essere secondo me la vera e propria missione di chi sceglie di scrivere di musica oggi. Fare ordine mentale in campo musicale significa poi riuscire a interpretare le realtà che viviamo, leggiamo, ascoltiamo. E quindi, oltre ad analisi, recensioni e live reports, è sempre più rilevante una saggistica interdisciplinare che sappia intrecciare solide competenze musicali a riflessioni nei campi della letteratura, della storia sociale e politica, dell’antropologia, tutte discipline che andrebbero padroneggiate un poco se si vogliono fornire chiavi di lettura – pur sempre soggettive e incomplete – e se si vuole tentare di dare un senso al caos che ci avvolge. (Samuele Conficoni)
Non scrivo di musica ma cerco di descriverla anch’io, coi miei reportage fotografici di concerti e festival. Collaboro con Kalporz da oltre tre anni e spero di farlo ancora a lungo: adoro fotografare gli eventi di musica dal vivo e sono particolarmente orgoglioso di farlo per questa piccola grande testata già ventenne.
La sintonia con Kalporz nasce da diversi fattori: la sensibilità musicale di chi decide cosa andare a recensire e fotografare; la linea editoriale sempre coraggiosa e aperta al nuovo, in qualunque forma esso si manifesti; l’approccio al tempo stesso easy ed appassionato dell’intera redazione.
Fotografare musica dal vivo è un privilegio. Chi ama fotografare sa che la macchina fotografica ti costringe a cercare un connubio profondo con il soggetto, qualunque esso sia: entrare in empatia con il soggetto è un aspetto imprescindibile per portare a casa un risultato che abbia un minimo di anima. Quindi il rapporto con gli eventi che fotografo è estremamente più intenso di quello che ho con gli eventi che mi limito a guardare e a sentire. L’effetto sulla memoria è completamente diverso: l’evento si imprime nella mia memoria molto più a fondo e mi piacerebbe realizzare un giorno che una mia fotografia è riuscita ad indurre questo effetto anche in altri, oltre che in me. Chissà se accade, nell’enorme inflazione di immagini che ci travolge ogni minuto.
Uno degli aspetti più interessanti della musica è il suo potere evocativo. Riascoltare un suono che ha caratterizzato un certo periodo della nostra vita evoca in noi le emozioni e i fatti di quel periodo: è per questo motivo che la musica ci emoziona. E allo stesso modo funziona una buona fotografia. L’abbinamento di musica e fotografia, quindi, quando riesce bene è così potente da rendere l’attimo quasi immortale.
Alla fine credo che il vero destinatario dei miei reportage sia io stesso. Ovviamente mi fa piacere consegnare un buon set alla rivista, mi fa piacere quando constato che un certo mio scatto viene apprezzato, ma il cliente finale sono io. Ecco perché considero il fotografare musica un privilegio, che purtroppo in quest’anno avaro ci è stato negato. Ma presto saremo nuovamente a bordo palco. (Giorgio Lamonica)