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Inizia oggi una nuova rubrica kalporziana, un contenitore di recensioni di libri musicali libera, trasversale per gusti e generi, dalla lunghezza fruibile e il “meno pallosa” possibile.
Non solo libri appena usciti o recenti, non solo saggi musicali, ma anche testi di narrativa che abbiano la musica come stella polare del racconto, insomma, in estrema libertà pur sempre musicale.
Cosa significa oggi, in una fase di capitalismo avanzato ad alto tasso di rumore, fare silenzio? E il rumore che tutti noi viviamo senza soluzione di continuità quale valore assume? Posto che qualcuno ci faccia ancora caso al tappeto sonoro su cui volano le nostre abitudini di tutti i giorni.
Inaugurando questa rubrica, con la pretesa sola di suggerire e stimolare, quando andrà bene, due riflessioni buttate lì, mi sono detto che è strano forte parlare di una tale dialettica all’indomani della più grande quarantena che gli esseri umani abbiano mai vissuto, se non per motivi bellici, laddove proprio l’assenza di rumore credo sia stato il primo di una serie infinita di fattori a turbare le nostre esistenze.
Turbare non necessariamente in negativo: quanti amici mi dicevano “finalmente basta macchine, basta traffico, solo pace, una pace sterminata” o “adesso la gente tace, era ora”. Certo, qualcuno di voi che sta leggendo potrebbe essere uno di quelli che cantava e ballava in balcone, neutralizzando di colpo tutto il discorso, ma parliamoci chiaro: il silenzio è stato il protagonista insospettabile di questo horror movie che forse ci siamo lasciati alle spalle. (non è un caso che in una recente pellicola a violare il silenzio ci si rimetta la pelle, scherzi della fiction).
Stefano Pivato, storico e docente universitario, nel suo “Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento” (Il Mulino, 2011) analizza dunque il significato sociale del rumore e con sguardo panoramico le fasi più significative della sua lunga storia. Perché il rumore è affascinante, seduce chi ne fruisce, trasforma i comportamenti dell’individuo, modifica le dinamiche della nostra società più o meno definitivamente. Almeno da un secolo e mezzo. La rivoluzione industriale prima e quella tecnologica poi hanno trasfigurato il paesaggio sonoro relegando il silenzio a componente ancillare del quotidiano.
Tutto fa rumore nella nostra modernità: la politica, gli aerei (le due guerre per i nonni, l’undici settembre per noi) le automobili ma anche la musica, presente ovunque, quando si mangia sushi o durante il cambio triste (perché lo specchio dice la verità) in un qualche negozio d’abbigliamento.
Dato che non c’è tempo di farla troppo lunga scomodiamo solo chi del rumore ne fece addirittura un’ideologia: quei diavolacci dei futuristi, avete presente, Carrà Boccioni e molti altri capitanati da Marinetti, genio mussoliniano prima del fascismo (qui però non frega niente). Proprio loro parlano di “formidabile progresso” in un’epoca, inizio novecento, all’insegna del fragore più violento. In un movimento in cui tutte le arti partecipano e ridisegnano i contorni della cultura d’avanguardia è nella musica che il “casino futurista” esprime la sua sonorità. Il futurismo rivoluziona la prassi e la filosofia dei suoni proclamando la fine di stili, linee e forme della musica tradizionale. Nei tanti manifesti, alcuni dei quali dedicati proprio al suono e alla sistematizzazione della prassi musicale, figure come Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo delineano una poesia del rumore. Basta con le note, piuttosto rombi, sibili, gorgoglii, ululati e al posto dell’orchestra una bella macchina intonarumori, un macchinario formato da scatole voluminose che riproduce suoni dell’era industriale. Sentite lo stesso Russolo: “il rumore deve divenire un elemento primo da plasmare per l’opera d’arte. Deve perdere, cioè, il suo carattere di accidentalità per divenire un elemento sufficientemente astratto perché possa arrivare alla trasfigurazione necessaria di ogni elemento primo naturale in elemento astratto d’arte”.
Se solo il povero futurista fosse entrato in uno dei nostri affollatissimi centri commerciali, probabilmente non avrebbe lasciato intonsa nemmeno una di quelle grandi scatole, ma tant’è. L’unico rimedio è continuare a insistere sul Rumore quale espressione d’arte, in un momento in cui ci stiamo riappropriando degli spazi sociali. Progettisti, architetti urbani, assessori di tutto il mondo, quando parlate di smart cities perché nelle vostre prolusioni non partite da qui, invece che dal riconoscimento facciale? Anche perché se devo urlare al tavolino con il drink in mano vengo male sullo schermo.
PS: il nome della rubrica è a lui dedicato perché inventò come mettere quella roba sul pentagramma, una scrittura adatta a tracciare la continuità dinamica nel groviglio di una composizione enarmonica. Vabbè, che Dio lo benedica.
(Alberto Scuderi)