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Il presupposto è che due dischi post quarantena dai quali mi sarei aspettato un gran botto in termini di pubblico, critica, commenti, condivisioni, voti con l’otto davanti, quel botto non l’hanno fatto. O almeno non come lo prevedevo. E siccome un po’ mi brucia (come ogni volta che credevo di aver capito una cosa e invece non), per farmene una ragione ho provato a inventarmi una spiegazione, consapevole che la spiegazione ultima sia il solito incastro di n. fattori. I lavori in questione sono quello di Arca e (secondariamente) il nuovo Khruangbin. Due dischi ben distinti (anche nel valore) ma accomunabili dal montare dell’hype in corrispondenza del loro progressivo disvelamento. E anche con qualcos’altro in comune. Nel caso di Arca il disvelarsi partecipato e progressivo, va detto, ha avuto un significato profondo e assai personale. Ghersi nei mesi che hanno preceduto la pubblicazione di “KiCK i” ha raccontato se stessa in forma di diario e ha provato a suggerire quali cambiamenti la sua musica stesse contenendo dentro a un involucro fatto di rumori e (oggi possiamo dirlo) anche di canzoni. I Khruangbin di “Mordechai”, attraverso lo snocciolamento di video e singoli, hanno fatto acclimatare (almeno apparentemente) il loro pubblico ad un suono di certo più trasversale, più apparentabile con la forma canzone (anche loro, appunto) ma senza un ripudio dei propri canoni e soprattutto delle proprie culture musicali (volutamente al plurale).
Ora cambio immagine per un minuto. Presente quando devi vender casa o affittarla? Ecco, c’è l’agente immobiliare che dice che cinque o sei foto son pure troppe e c’è quello che va per panoramiche, grandangolo, virtual tour, soundtrack, dettagli dei battiscopa. Ecco, in questo secondo caso, chi fa la visita è possibile che dica “bella ma sembrava più grande”, “ok, ma il condominio è un po’ uccio”, oppure “eh, al parquet devi stargli troppo dietro”. D’accordo, son cose che dirà anche nell’altro caso ma alternate ad annotazioni un filo più positive che sanno di scoperta. Ora, il mondo della musica e dell’immobiliare non sono proprio sovrapponibili però sempre noi siamo. A cercare il quattro vani ideale, a sentire i dischi, a fantasticare e a criticare. E la scoperta come atto, evidentemente è un valore che libera da alcuni vincoli.
Ultimamente due dischi che alla loro release hanno generato un chiasso clamoroso sono stati due album arrivati senza quasi citofonare, entrati in casa dalla finestra del lockdown (eccezion fatta per un’anticipazione in sordina, col mondo sottosopra). Due dischi intrinsecamente diversi dai due citati sopra nella crudezza in your face (che potrebbe essere un ingrediente decisivo per farsi apprezzare di questi tempi) ma anche nella capacità di scelte tempistiche immediate, ben sincronizzate col mondo fuori, che rinunciando al mostrarsi graduale si sono sottratti all’estenuante elastico dei social. Chiaro che sto parlando dei Run The Jewels e di Fiona Apple (sì, ci sto tornando sopra ma per fare un discorso diverso, giuro). E con dischi come questi succede che la critica che se li trova in mano dall’oggi al domani (e si prende l’onore e la rogna di trattarli in tempi strettissimi) ha la possibilità di essere per un momento, almeno su un punto, la critica dell’era pre-internet. Quella, insomma, che si rivolgeva ad un pubblico più o meno all’asciutto rispetto a quell’oggetto specifico. In questo caso attuale non tanto all’asciutto in termini di possibilità di ascolti (che oggi sono immediati e pressoché simultanei) quanto in assenza di quell’elastico di cose già dette, commentate, anticipate, leakate, digerite, contestate.
Ed è qui che volevo arrivare perché magari il disco dei Khruangbin non è questo ricamo etno-pop che qualcuno ci vede però non mi sembra nemmeno che sia un disco insufficiente come dice invece Pitchfork. Credo che il gioco di onde e risacche che caratterizza la rete da quando è nata investa almeno un po’ anche il nostro modo di raccontare quel che ci appassiona. Anche quando diciamo che stiamo adottando il più professionale dei distacchi. Allora se da un lato è inevitabile difenderci da una valanga d’informazioni aguzzando ancora meglio la vista e l’orecchio e cercando quel che eventualmente non va (come il parquet da levigare), dall’altro lato, con lo stesso pretesto delle informazioni, siamo presi più a definire noi stessi che l’artista o il contenuto. Badiamo così tanto al già detto, agli interlocutori terzi, al discorso lasciato sospeso il giorno prima che ci curiamo di più di come posizionarci che di cosa hanno provato a raccontare dei tizi con la musica che hanno messo in piedi. E non dico che sia sbagliato. Dico che è sbagliato non esserne consapevoli.
(Marco Bachini)