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Nonostante un certo scetticismo, alla fine questo lungo ritorno dei Psychedelic Furs riesce a convincere gli ascoltatori.
L’ultimo album in studio del gruppo londinese capitanato dai fratelli Richard e Tim Butler risaliva addirittura al 1991 (“World Outside”, Columbia), praticamente trent’anni fa. Se è vero che si siano consumati più “ritorni” in questi ultimi anni, bisogna dire che questo è un caso differente da quello che può avere riguardato Jesus & Mary Chain oppure Slowdive, per fare due nomi tra i tanti. Se questi infatti sono stati gruppi che hanno continuato a mantenere un culto diffuso, lo stesso non si può dire per gli Psychedelic Furs, che quindi restavano in qualche maniera relegati a una platea di affezionati per lo più storici.
Il momento appariva comunque opportuno, considerando la scena musicale attuale britannica dove sono fortemente quotati gruppi come i Fontaines D.C. e Idles e il cui sound ha chiaramente dei rimandi che affondano le proprie radici negli anni ottanta della musica britannica e in questa specie di rinnovamento, “Made of Rain” (Cooking Vinyl) – prodotto dal gruppo con Richard Fortus (noto principalmente per essere dal 2002 uno dei chitarristi dei Guns N’ Roses e per un periodo chitarrista proprio degli Psychedelic Furs) – si può sicuramente considerare come un disco “contestuale” e storicamente sensato.
Completano la formazione il chitarrista Rich Good, Amanda Kramer alle tastiere e Paul Garisto alla batteria, ma in un disco che si può definire stilisticamente impeccabile, ha come sempre nelle dinamiche del gruppo, un ruolo centrale il sassofonista Mars Williams, che segna il sound Psychedelic Furs in una maniera inconfondibile.
Il disco ci proietta sin dalla prima traccia in quello che è il contenuto dell’intero lavoro. “The Boy Who Invented Rock & Roll” ha un taglio glamour e caotico suburbano tipo U2 primo periodo berlinese e allo stesso tempo denso di inquietudini oscure e che richiamano alcuni immaginari dell’ultimo David Bowie. Innegabile del resto che ci siano impronte del “duca bianco” in tutto il disco: “Wrong Train”, “Turn Your Back On Me” (ma pure i toni di “This’ll Never Be Like Love”) sono dei pezzi che hanno una intensità che possiamo sicuramente avvicinare a un range della discografia di Bowie che va da “hours…” (Virgin, 1999) fino a “Blackstar”.
In alcuni casi il gruppo manifesta quella cifra stilistica che negli anni novanta fecero propria gli Suede, penso a “No-One”; “You’ll Be Mine” chiama chiaramente in causa i VU; mentre “Don’t Believe”, “Come All Ye Faithful” si inseriscono nel contesto della musica britannica di questi anni alla perfezione.
Più devoti a una contestualizzazione anni ottanta sono le ballads “Ash Wednesday” e la buona “Hide The Medicine”. Meno convincenti “Tiny Hands e Stars”.
Il buono di questo disco è che sicuramente non sfigura al cospetto di produzioni di altri gruppi più “giovani”, certo avrà forse minore furore, ma sicuramente più classe. Mancano tuttavia quelle intuizioni degli anni d’oro del gruppo e anche una certa “ricerca”, un punto in meno che lo rende un disco buono e un atto celebrativo, ma niente di sorprendente e indimenticabile.
(Emiliano D’Aniello)
67/100