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Oramai anche album che ci sembrano vicinissimi arrivano al traguardo del decennale: è il caso del quinto album dei Deerhunter, disco che li ha definitivamente consacrati tra i migliori e più fantasiosi autori di un indie-rock psichedelico e graffiante dalle mutevoli manifestazioni noise, shoegaze, pop, e chi più ne ha più ne metta, e che oggi compie 10 anni. Un album che dimostrava come i Deerhunter avessero “una loro formula… del tutto peculiare e riconoscibile”, così diceva Piero Merola nella recensione dell’epoca.
Siamo quindi andare a rimettere sul piatto “Halcyon Digest” e a scrivere cosa ne pensiamo ancor oggi.
A novembre del 2019, chiamati a stilare la classifica dei migliori album degli anni ‘’10, i redattori di Kalporz produssero una top 30 piuttosto eterogenea. Al sesto posto si piazzò infatti un album uscito nel 2010, che forse era più rappresentativo di un sound prima “resuscitato” e poi evolutosi nella prima parte del nuovo millennio. Il disco in questione, “Halcyon Digest” dei Deerhunter, festeggia oggi dieci anni, e rimane una tappa imprescindibile nel percorso di chi si è formato musicalmente a cavallo tra gli anni ’00 e gli anni ‘10. Con questo album Bradford Cox e soci plasmarono per l’indie rock un’identità nuova, libera dalle ombre dei giganti del passato, conservandone tuttavia l’ispirazione. I Deerhunter, infatti, furono i primi, e forse gli ultimi, a riuscire nell’impresa di affrancarsi dalla retromania dilagante in quell’epoca musicale.
L’approccio di “Halcyon Digest” è lontano dall’ermetismo compiaciuto di certi contemporanei alla band di Atlanta. Proprio qui vanno cercati i motivi per i quali questo album ha lasciato il segno: la ricerca e la sperimentazione sono onnipresenti ma i codici di accesso alla musica dei Deerhunter restano alla portata di chiunque. Quello che serve è solo un’attitudine aperta ed empatica all’esperienza di ascolto. Si prenda ad esempio di tutto il disco il trittico di brani iniziale. Earthquake, con il suo andamento liquido e rarefatto, non è propriamente il pezzo che metteresti come prima traccia, eppure è una perfetta introduzione a quello che verrà dopo: la splendida melodia di “Don’t Cry”, una sorta di pezzo manifesto del gruppo. Quando poi arriva “Revival”, con quell’attacco leggendario che apre a due minuti di pop inimitabile, i Deerhunter sembrano dirti “ci hai dato fiducia e ora lo sai, siamo dalla tua parte”. E anche oggi, dieci anni dopo, è bello vedere come davanti a “Halcyon Digest” siamo ancora tutti della stessa squadra.
(Stefano Solaro)
Col senno di poi si può dire che c’è un concetto waporwave in “Halcyon Digest”: che si finisce a costruirsi un passato su misura, una nostalgia per cose e situazioni che verosimilmente si sono vissute, ma che in realtà non sono state proprio così. I Deerhunter hanno creato un album di fotografie scolorite affascinanti e decadenti, un vero e proprio collage dell’inconscio che ha a che fare soprattutto con la libertà (e la conoscenza) che i progetti solisti Atlas Sound e Lotus Plaza avevano donato a Bradford Cox e Lockett Pundt ma anche con gli stati mentali variopinti degli Animal Collective (il produttore Ben H. Allen è quello di “Merriweather Post Pavilion”). Ha un andamento claudicante, freak, come del resto si presenta l’antifrontman Cox e la copertina da “nuovi santi” di George Mitchell, perché questo quinto album è davvero la summa dell’eccitazione psichedelica (“Desire Lines”, una delle canzoni più belle degli anni Dieci) che stava per iniziare ad animare il decennio e della (necessaria) continuazione degli standard anni Cinquanta (“Colorado”, con quel suo sax da ballo delle debuttanti) e di tutto il linguaggio che la band di Atlanta si era costruita fino ad allora (“Fountain Stairs”). Peraltro la cifra stilistica che ancor oggi più si nota è quella fragilità trasmessa da canzoni come “Earthquake”, un tentativo di sospendere (ed elevare) l’attimo con aperture popgaze e delicati acquerelli da camera. Perché se i Deerhunter sanno far ballare senza pensieri con “Revival”, sanno altresì giocare come nessun altro con magnifici piccoli loop e puzzle emozionali che solo l’escluso, il sensibile, riesce a tratteggiare.
“Halcyon Digest” riesce nel suo intento di rappresentare un piccolo frammento riconoscibile di universo che ha coscienza dei suoi limiti, e che proprio per questo è prezioso e da conservare con cura e attenzione.
(Paolo Bardelli)
articolo tratto dal libro “Piccola Guida agli Anni Dieci” (Arcana) di Paolo Bardelli
Si è persa l’abitudine a considerarlo, ma nell’epoca della fruibilità da streaming usa e getta, forse è solo il tempo che può sancire il valore autentico delle cosiddette pietre miliari. “Halcyon Digest” come tanti album usciti nel nuovo secolo ha conquistato immediatamente nuovi estimatori, ma inizialmente aveva lasciato un po’ straniti i vecchi fan della band guidata dall’istrionico e indolente Bradford Cox. In molti ricordano che questo era già il quinto album per i Deerhunter che avevano già consolidato una sonorità fatta di allucinazioni dream-pop, abrasivi anthem indie-rock e sbilenchi momenti pop psichedelici valorizzati dall’ispiratissimo songwriter di Cox e Pundt. Cosa rimane oggi di “Halcyon Digest”? Non solo capolavori quali “Desire Lines, “Earthquake” e “Revival”, ma forse il primo disco in cui i Deerhunter prendono una forma eterogenea, ma immediatamente riconoscibile.
Come se fosse uscito ieri.
(Piero Merola)