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“Cosa faremo da grandi?” La domanda se l’è fatta nel suo bel pezzo Lucio Corsi, ma forse è ora che anche noi più o meno avvezzi a scrivere di musica, iniziamo a porci questo quesito. Una delle funzioni essenziali del critico, o come meglio ci definiamo qui su Kalporz, dello scribacchino, è quella di categorizzare, creare filoni, analizzare tendenze, raggruppare i suoni e trovare una coerenza tra epoche sonore e storiche. Oggi però rischiamo di diventare obsoleti, le Intelligenze Artificiali fanno questo lavoro con più dedizione di noi. Non a caso vengono fuori le IA che, tramite lo sviluppo delle reti neurali, riescono a classificare e categorizzare i brani. Dati, musica, algoritmi sono elementi con cui stiamo imparando a convivere e sono alla fine un fulcro di questo spazio, ma come la mettiamo se effettivamente tutto questo rischia di rendere obsoleta la nostra figura?
La natura dei generi musicali è di per sé estremamente evanescente: questo rischia di un essere un serio problema per le reti neurali che necessitano di un dataset affidabile e che quindi rischiano di soffrire tutte le mancanze e le imperfezioni di definizione di un genere rispetto ad un altro.
L’appartenenza ad un genere rispetto ad un altro oggi più che mai una questione algoritmica, matematica. Le reti CNN (Convolutional Neural Network) sono un incredibile avanzamento per i servizi connessi alla musica, ma rischiano di impoverire la riflessione e il pensiero attraverso nuove e immediate categorizzazioni?
Una domanda del genere va ad aprire troppe sfumature, ma una risposta si può trovare nel bel saggio “Elogio della Critica”, in cui a proposito di musica A.O. Scott scrive: “Un brano musicale non rappresenta un ragionamento ovvio, non produce un racconto testuale, ma si erge al di sopra della politica e della storia, in un etere in cui la logica e il sentimento coesistono e sono intercambiabili”.
Forse l’approccio giusto è proprio questo: il nostro compito di scribacchini è connesso al rimescolare le carte delle semplificazioni e anzi forse la non necessarietà di dare categorie e generi può liberare i critici dal nozionismo, aprendoli a quell’integrazione linguistica e letteraria di cui ha parlato anche Rossano Lo Mele in un’intervista su Minima e Moralia.
A dare un ulteriore spunto sul rapporto interconnesso tra musica e tecnologia ci hanno pensato insieme Mark Fisher e Simon Reynolds. Il primo, in un suo saggio uscito sul New Statesman nel 2009, in cui scriveva: “What has happened, however, is that technology has been decalibrated from cultural form”. Il secondo è tornato sulle delle affermazioni di Fisher in un articolo uscito su New Perspectives, in cui ha fatto riemergere anche una conversazione avuta con lo stesso Fisher: “Mark suggested that cultural temporality was now measured not by the emergence of new forms, but “by technical upgrades” that mostly “manifested in terms of the distribution and consumption of culture rather than in terms of production”.
La dimensione dell’aggiornamento, dell’upgrade tecnologico, come qualcosa non tanto utile alla creatività quanto alla sua divulgazione e al consumo, è un aspetto tutto da indagare per la critica. Lo sviluppo dell’AI e delle reti neurali pone nuove sfide, come abbiamo anche analizzato nelle precedenti puntate di questo spazio. È proprio qui che può soffermarsi la nostra attenzione, ma ci tocca sguazzare e sporcarci le mani in questo spazio di confine tra il fisico e il cibernetico, in questo varco in cui spesso si confonde ciò che è fantascienza e ciò che è realtà.
(Gianluigi Marsibilio)