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La band di Manchester è stata assente in tutti gli anni Dieci, e così è passata direttamente dal 2009 ad oggi (l’11 settembre è uscito il loro ultimo “The Universal Want”). Quale occasione migliore per riprendere il filo della loro storia attraverso le sette canzoni (a detta di Kalporz) più belle e/o rappresentative? Ben sapendo che se rifacessimo questa Top 7 fra un po’ di tempo ci entrerebbe di certo anche una song dell’ultimo album.
7. “M62 Song” (da “The Last Broadcast”, 2002)
Il mare e come delle voci di sirene lontane introducono “M62 Song”, una piccola gemma nascosta nell’album del 2002 dei Doves. In realtà il testo è un canto notturno alla luna nell’attesa che arrivi un anelato amore, un sentimento universale che viene rappresentato plasticamente nel suono “anticato” della canzone e attraverso una chitarra che più che acustica è classica (con un suono più vicino alle corde di nylon che a quelle “di metallo”) oltreché da una voce che pare provenire dall’oltretomba. L’effetto finale è una sorta di “canzone da grammofono” che anche i Radiohead, l’anno prima, sperimentarono con la loro superlativa “You and Whose Army?”.
Come una melodia che sgorga da un tempo lontanissimo, in “M62 Song” i Doves amplificano quel sentimento insoddisfatto di cui sono magnifici cantori anche attraverso queste particolari scelte di produzione.
(Paolo Bardelli)
6. “Black and White Town” (da “Some Cities”, 2005)
Ci sono canzoni il cui immaginario è inestricabile con il loro video, e “Black and White Town” è una di queste. Diretto da Lynne Ramsay e girato a Glasgow, ci mostra la vita nelle difficili periferie suburbane britanniche, tra ragazzini annoiati che tirano pugni a sacchi da boxe indossando magliette di squadre di calcio, madri depresse, vere e proprie scene di guerriglia urbana, il che era in effetti un problema – quello della violenza di bande minorili – sussistente in Gran Bretagna all’epoca dell’uscita del brano.
Il drumming incessante di Andy Williams ci introduce in quelle lande di nessuno dove i Doves stranamente si votano all’azione (“Here comes the action”) : ci sono uomini a terra con la testa spaccata (“Crack you head on that pavement man!”) e la prospettiva è solo quella di fare la stessa fine sottoterra (“I’ll be ten feet underground”), perciò bisogna andarsene.
I Doves lanciano ai ragazzi un monito di riscatto, per fuggire dalla violenza, e lo fanno a loro modo in quello che fu il principale di singolo di “Some Cities”.
(Paolo Bardelli)
5. “Caught By The River” (da “The Last Broadcast”, 2002)
Vorrei essere chiaro: come molti anche per me “Lost Souls” resta insuperato. Anche negli album successivi però i Doves hanno saputo tirare fuori grandi canzoni. Nel secondo “The Last Broadcast” ad esempio c’è questa sorta di gospel psichedelico chiamato “Caught By The River”, e nonostante il testo descriva uno scenario bucolico (non solo il fiume del titolo, ma anche prati e campi di grano) il suono dei mancuniani a me continua a rimandare sì a qualcosa di notturno, ma ad un buio che non suggerisce niente di cupo e molto anzi di spaziale, di fantascientifico. La sensazione qui è più che mai questa: partire su qualche mezzo volante che decolla in piena notte verso lo spazio, con le luci della pista che pian piano diventano le luci delle stelle. La progressione del brano, il modo in cui gli strumenti entrano pian piano in gioco, la ritmica sempre più sostenuta delle chitarre, i cori e i vari ooh-ooh: è tutto da manuale di un certo tipo di canzone pop meno legata alla forma strofa-ritornello e a qualcosa di più espanso, di appunto corale e liberatorio, da cantare a squarciagola e su cui jammare potenzialmente per ore. Per certi versi un po’ la risposta dei Doves a “Everything’s Not Lost” dei contemporanei Coldplay e a “Champagne Supernova” dei concittadini Oasis. Come quelle, anche questa piazzata strategicamente in fondo alla tracklist a fare da spettacolare commiato.
(Simone Madrau)
4. “Sea Song” (da “Lost Souls”, 2000)
Probabilmente ci sono altre canzoni più significative del plurilodato esordio dei nostri, come ad esempio “Here It Comes” e le “frivole” (non perché lo siano propriamente, ma perché ammiccano all’ascoltatore nell’ambito di un album comunque scuro) “Melody Calls” e “Catch The Sun”, ma “Sea Song” porta con sé quel gusto tipicamente di fine millennio e quelle andature soavi nelle chitarre che utilizzava anche l’indimenticato Jeff Buckley, perciò è una canzone da lacrimuccia immediata che riporta immediatamente in quel tempo, in quei luoghi.
La cifra stilistica è quella che i Doves svilupperanno durante tutta la loro carriera: una malinconia in punta di piedi ma allo stesso tempo inesorabile, dalla quale sembra difficile uscirne, riequilibrata solo un poco da una risolutezza inaspettata (“Drive with me”)
A loro modo, dei poeti che si struggono in una magnifica e sognante afflizione.
(Paolo Bardelli)
3. “Break Me Gently” (da “Lost Souls”, 2000)
Fin dall’artwork “Lost Souls”, disco d’esordio dei Doves, ha un’anima cinematografica: l’uso del bianco e nero in copertina in copertina ricorda quello ne “La Notte” di Michelangelo Antonioni. Il titolo dell’album, tradotto in italiano, diventa simile a quello di una pellicola di Dino Risi: “Anima Persa” del 1977. Sì, certo, i Doves, essendo di Wilmslow, hanno e avranno (avuto) probabilmente altri riferimenti filmici ma una cosa è certa: molti dei brani di questa prima produzione della band inglese (ex Sub Sub) sono ispirati dalla settima arte: immaginifici e onirici. “Break Me Gently”, come anche il pezzo di apertura “Firesuite” o la “Reprise” di ispirazione morriconiana di “The Man who told everything”, è musica che viaggia per immagini e suoni (spesso manipolati): non parla certamente lo stesso linguaggio di quello che la critica musicale ha definito e continua a definire “brit pop”. I quattro minuti e mezzo di “Break Me Gently” – sognanti e malinconici – sono un vortice pop psichedelico di suggestioni sonore, con tanto di campionamento da “MC Disagree” dei 3rd Bass (gruppo hip hop newyorkese).
(Monica Mazzoli)
2. “One Of These Days” (da “Some Cities”, 2005)
Quando penso ai Doves nell’ottica di una top 7, il mio giudizio è che siano una tra le (poche) band uscite nel nuovo millennio i cui album per intero valgono molto più delle singole canzoni. Se il teorema è ottimamente applicabile sui primi due lavori – nonostante l’esordio “Lost Souls” raccolga materiale registrato nell’arco di quattro anni – per “Some Cities” ci vuole applicazione, è un disco che cresce lento ma inesorabile grazie al forte impatto rock di “Sky Starts Falling” o della title track, ai ritmi northern soul del singolo “Black And White Town” e ad episodi particolari, di contaminazione, quali “One of These Days”. Inizia su tocchi elettronici quasi dreamy per poi accendersi con la batteria marziale e una chitarra dapprima smithsiana che nel frammento centrale si rende nevrotica, à la “Ok Computer”; non a caso il produttore Ben Hillier (già responsabile del sound di “Think Tank” dei Blur) verrà contattato dai Depeche Mode per “Playing The Angel” e i due lavori successivi. Trattasi di una composizione originale anche per l’assenza di un ritornello: la voce di Jimi Goodwin è lontana, il messaggio sommesso: “Your friends they were so close/ One by one they didn’t stay/ Drift away like rolling sea/ One by one they drift away/ One of these days”. Your friends they were so close One by one they didn’t stay Drift away like rolling sea One by one they drift away One of these days”. Metafora dell’alienazione umana, forte oggi come quindici anni fa.
(Matteo Maioli)
1. “Kingdom of Rust” (da “Kingdom of Rust”, 2009)
Canzone emblematica dell’equilibrio fra rock melodico e psichedelico che i Doves raggiungono nel 2009 grazie al disco omonimo che rappresenta la loro canonica definitiva consacrazione. Dopo gli spasmi elettronico-siderali della traccia iniziale “Jetstream”, “Kingdom of Rust” piomba addosso improvvisamente come la notte più scura di un estate, avvolgendo con sonorità polverose ed emozionanti crescendo orchestrali rimandanti ad atmosfere western metafisiche ammantate da quell’algidità che è l’impronta inconfondibile del gruppo di Manchester. In poche parole, come se Ennio Morricone orchestrasse i Radiohead. Il testo è abrasivo e romantico al contempo, trasmettendo la tensione latente e l’insanabile malinconia che soggiacciono a ogni attesa d’amore.
“I hear a sound, a sound above my head / Distant sound of thunder, moving out on the moor / Blackbirds flew in and to the cooling towers / I’ll pack my bags / Thinking of one of those hours
/ With you, waiting for you / My god, it takes an ocean of trust
In the kingdom of rust”
(Emmanuel Di Tommaso)