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“Luciano, qui ci vuole un cielo tempestoso, come quelli che metti tu nelle foto, qui ci vuole un cielo da Nani!” Era appena arrivato un servizio in redazione, opera di uno dei suoi fotografi più fidati, e Franco, con il suo consueto sarcasmo, si lamentava dell’inopportunità del cielo azzurro siciliano sullo sfondo delle statue dei mostri del giardino di Villa Palagonia.
Erano gli anni ’90, da poco frequentavo la redazione di Franco Maria Ricci, l’uomo che aveva fatto curare le sue collane editoriali a Jorge Luis Borges, che aveva commissionato i testi ad Italo Calvino e a Roland Barthes, e che a fianco delle pagine letterarie più intriganti pensò finalmente a fotografie ricche di dettaglio e perfette nell’esecuzione, in grado di rendere giustizia alla creatività dell’uomo.
Per la prima volta, sfruttando i progressi delle tecniche già in uso nella comunicazione pubblicitaria, apparivano fotografie di grande qualità, a pagina intera e in doppia, capaci di restituire il dettaglio e i colori delle opere originali.
Lui usava il disarmante potenziale dell’immagine come un’arma di seduzione alla quale non era possibile resistere; quando era scontento di qualcosa, lo annullava nel nero. Col passare del tempo, l’escamotage di far emergere un dettaglio scontornandolo sul fondo scuro, nato sulle prime per la necessità di dare unità stilistica a immagini di diversi autori e diversa provenienza, era diventato un potente detonatore di attenzione, indirizzando l’occhio su ciò che esattamente voleva mostrare, con il risultato che l’immagine pubblicata riusciva a fissarsi nella mente dell’osservatore persino più di quanto potesse una visione dal vero.
Ricci aveva talento nello scegliere i suoi fotografi, evitava accuratamente gli specialisti della riproduzione d’arte, perché prevedibili e impersonali, e anche gli autori affermati che non avrebbero avuto la pazienza o l’umiltà di condividere in pieno la sua visione. Per lui si dovevano superare difficoltà incredibili, come illuminare una cattedrale intera con i pochi mezzi a disposizione, o trovare il modo di fotografare la piazza di una città sgombra da auto e da pedoni. Lui sceglieva i collaboratori in base all’abilità, alla sensibilità e alla cultura, ma anche all’empatia che dimostravano nei confronti delle sue scelte; con lui le immagini non erano più un semplice supporto iconografico, diventarono un saggio interpretativo scritto con la luce in grado di rivelare l’essenza di un’opera d’arte quanto le parole che compaiono nel testo.
Folgorato dall’incontro con l’opera del suo concittadino Giovan Battista Bodoni, Ricci iniziò la sua carriera di editore con una ristampa anastatica del celebre Manuale tipografico settecentesco. Parcheggiava la sua Jaguar E-Type nera a due isolati di distanza per non mettere in soggezione le persone alle quali proponeva l’acquisto dei suoi primi libri; l’auto era identica a quella disegnata negli album di Diabolik, il primo oggetto meraviglioso della sua futura collezione, 450 pezzi che annoverano le sculture di Adolfo Wildt e i busti neoclassici di Bartolini e di Canova alternati, in un singolarissimo mix eclettico, ai dipinti di Hayez e di Ligabue, ai monumentali modelli lignei delle cattedrali gotiche tedesche e alle macabre ceroplastiche seicentesche della scuola di Zumbo; la Jaguar bella e impossibile (che sempre lo appiedava perché a sua detta il calore emanato dal sei cilindri rendeva l’abitacolo una specie di forno e mandava in tilt l’impianto elettrico), ti accoglie oggi su un piedistallo all’ingresso del Labirinto della Masone, a Fontanellato, nella campagna parmense.
“FMR”, la rivista d’arte più nota al mondo, ha avuto tutto sommato una vita non lunghissima, dal 1982 al 2004, e fino al 2008 sotto altra direzione; il titolo giocava sulle iniziali del suo nome, che pronunciato in francese suonava “éphémère”, effimero come ogni sogno, come ogni visione. Ricci affrontava le sue imprese con lo spirito dell’amatore, in lui splendeva il demone del collezionista disposto a tutto per possedere un oggetto esclusivo e seducente e le immagini nei suoi libri e riviste sono l’attestato di opere, oggetti e luoghi voluttuosamente concupiti con gli occhi.
Le analisi di mercato non lo interessavano, le idee sgorgavano dalla sua mente vulcanica con freschezza ed entusiasmo contagiosi, erano idee vincenti proprio perché inaudite o giudicate impraticabili dai professionisti del settore.
Notai per la prima volta la rivista in un’edicola, accanto ai quotidiani e agli album dei calciatori Panini, prima ancora che nascessero in tutte le principali città italiane ed europee le sue librerie esclusive; costava 5.500 lire, una cifra proibitiva per uno studente, ma tutto sommato abbordabile per la qualità e il lusso che lasciava presagire; del resto Franco Maria Ricci era un convinto assertore del valore divulgativo della rivista e del libro, che deve essere bello e seducente, ma deve costare il giusto prezzo. Qualche tempo dopo ebbi modo di sfogliare FMR a casa della mia ragazza di allora, studentessa al primo anno di Agraria e appassionata di entomologia, c’era un bizzarro articolo dal titolo Musca depicta, una serie di dettagli molto ravvicinati di dipinti che non avevano alcun legame tra loro se non il vezzo iperrealista del pittore di rappresentare una mosca o delle api in un angolo del dipinto come se vi si fossero casualmente posate; un’idea geniale, non si era mai visto nulla del genere.
Definita da Federico Fellini «la perla nera dell’editoria», descritta da Jacqueline Kennedy al lancio americano come la rivista più bella del mondo, fu negli anni ’80 e ’90 e fino ai primi del 2000 il corrispettivo editoriale di quello che il Made in Italy rappresentò nel mondo della moda, segno di un’italianità che avrebbe fatto scuola nel mondo: Benedikt Taschen, oggi l’editore d’arte più noto, ha sempre indicato in “FMR” il suo modello ispirativo.
Le copertine sempre sorprendenti, con i dettagli che emergevano splendenti dal nero lucido e profondo, una veste grafica raffinatissima, l’elegante carattere bodoniano rigorosamente applicato, una formula considerata eversiva da molti studiosi, che temevano la supremazia dell’immagine rispetto al testo (che al contrario veniva affidato sempre alle penne migliori), Ricci ci mostrava ciò che è noto e ciò che non lo è ancora, con occhi nuovi e con la sincera meraviglia che lui stesso provava di fronte a un’opera messa nella giusta luce e dall’inquadrata dritta, con la sua rigorosa prospettiva centrale, quella stessa che si vede nei disegni e nei progetti, contestata inutilmente dai miei colleghi, ma da me, studente di architettura, amatissima. Una formula editoriale fondata sul suo gusto eccentrico, elitario e aristocratico, talvolta tendente all’opulento, che amava allo stesso tempo la semplicità e spontaneità dell’arte popolare e che alternava articoli dedicati ad Arcimboldo, a Canova o Tiepolo a quelli che illustravano con pari dignità spille déco in bachelite, juke-box anni ’50 o l’eccentrica collezione di occhiali di Elton John.
Una rivista in grado di risvegliare la curiosità e il desiderio di conoscenza dei lettori, guidati in un rocambolesco percorso tra bizzarre curiosità e capolavori conclamati, sempre sedotti dal personalissimo punto di vista dell’editore che, rendendoci partecipi delle sue innumerevoli passioni, attraeva tutti nella sua ragnatela di seta nera.
Collane leggendarie, dalla Biblioteca di Babele curata da Borges ai Segni dell’uomo con i testi di Italo Calvino e Umberto Eco, alla collana Grand Tour, una serie di volumi di grande formato sulle meraviglie artistiche delle città italiane, con una particolare predilezione per i centri minori, non noti ma ricchissimi di testimonianze artistiche.
Mi insegnò che non va mai fotografata la semplice apparenza di un’opera d’arte o di un’architettura, va rappresentata l’idea che il suo autore aveva in mente nel progettarla, e un giorno mi confessò che se non avesse fatto l’editore e il designer avrebbe voluto essere un architetto. Ne ebbi la prova quando una sera al Cairo, ospite del Ministro della Cultura egiziano, discuteva del progetto preliminare per la costruzione di un nuovo museo in prossimità delle Piramidi, una realizzazione faraonica che lui stesso intendeva coordinare, ma che non vide mai la luce. “Vedi quelle rocce? Sono scisti, formazioni metamorfiche che si sfaldano su piani paralleli”… attraversando il giorno dopo il deserto egiziano alla volta del Monastero di Santa Caterina del Sinai, dove eravamo diretti per realizzare un libro commissionato dalla Mobil Oil, Ricci mi rivelò che non aveva mai studiato arte, era laureato in geologia, e che l’idea di dedicarsi ai libri gli era balenata nella testa quando era già impegnato nelle lunghe e solitarie missioni come consulente di una società di ricerche petrolifere in Turchia. Forse, l’amore per la stratificazione del tempo era l’unica cosa che accomunava i suoi interessi.
Con il Labirinto della Masone, il più grande labirinto al mondo, Ricci ha realizzato anche quest’ultimo sogno, diventare un architetto dando corpo, con Pier Carlo Bontempi, ad una sorta di combinazione tra il Giardino di Polifilo descritto nel 1499 da Francesco Colonna e le mai realizzate architetture utopistiche dell’illuminismo di Étienne-Louis Boullée. Nessuno in cuor suo immaginava dieci anni fa cosa sarebbero diventati quei cespugli informi appena piantati, forse persino la moglie Laura Casalis, compagna di vita e di lavoro, pur avendo condiviso tanti successi e tante conquiste, ogni tanto era sfiorata dall’ombra del dubbio. Lui no, il labirinto era il suo impegno morale, la promessa fatta all’amico Borges, realizzarlo fu l’unica cosa al mondo che lo avrebbe spinto a vendere la casa editrice.
Mi hanno detto che si è spento con un accenno di sorriso… mi piace immaginare che fosse quell’espressione sottilmente ironica, a bocca chiusa e con gli occhi in festa che aveva quando mostrava con consapevole orgoglio le sue creazioni. È avvenuto sul terrazzo panoramico che consente di guardare la struttura dall’alto: arrivato in cima, forse per lo sforzo della salita, il suo cuore si è fermato, dopo un ultimo sguardo alla sua impresa. Così, Franco si è perso per sempre nel suo Labirinto; in quella selva intricata di bambù, in quegli edifici che contengono i suoi libri, le opere d’arte e gli oggetti meravigliosi di una vita, in quelle cose che, come scriveva Jorge Luis Borges …dureranno piú in là del nostro oblio; non sapranno mai che ce ne siamo andati.
(Luciano Romano)