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Poche ore prima che annullassero il loro show milanese del ventitré febbraio, e poche settimane prima che fossero costretti a cancellare il resto del loro tour europeo, i Big Thief, diretti, all’interno del processo democratico che è questa band, da Adrianne Lenker, si esibivano al Locomotiv di Bologna. Venivano da due dischi trionfali dati alle stampe entrambi nel 2019, “UFOF” e “Two Hands”, così diversi tra loro e così perfettamente complementari, il lato angelico e il lato terreno dell’essere umano che si fondono in un violento indistinto, un gomitolo di cause e concause che ci rendono finiti e fallaci. Lo show fu straordinario, una scarica di folk-rock autoriale, fulmini di chitarre distorte e ninnenanne di arpeggi dolcissimi, melodie sognanti e poesie rivelatrici nella loro naturale ambiguità.
Poi, qualche settimana dopo, arriva, tiranno, il lockdown. Porta con sé la cancellazione del tour europeo dei Big Thief e una serie di disagi infiniti. Adrianne si rifugia in una one-room wood cabin nel Minnesota, compone nuovi brani, ne riarrangia alcuni che aveva già scritto, telefona a un amico musicista e producer, Philip Weinrobe, e insieme a lui li perfeziona e li incide. Ne nasce un progetto doppio, formato dagli undici brani cantati di “songs” e da due lunghe jam chitarristiche, gli “instrumentals”, niente affatto secondarie rispetto alla loro controparte.
Ci troviamo di fronte a una delle cantautrici più originali, versatili e talentuose uscite dal decennio appena conclusosi, che con la band della quale è (formalmente) leader ha pubblicato quattro album brillanti, appassionati e incalzanti, gli ultimi tre dei quali particolarmente rilevanti e incisivi all’interno del panorama folk-rock made in USA dei ‘10s. È lei il fulcro emozionale e compositivo del gruppo. Basti pensare che tutti i brani pubblicati dai Big Thief finora sono stati composti interamente da lei eccetto uno scritto, peraltro, a quattro mani da lei e dal chitarrista Buck Meek. Ora la sua musica, solitamente così immersa in un abbacinante banco di nebbia e vapore, in una distesa di sabbia di una spiaggia invernale, è spogliata e resa (quasi) preghiera. Adrianne si rivolge a noi dolcemente, in un andamento accorato e un po’ sghembo, così sincero da metterci quasi, nel senso più positivo del termine, a disagio.
E per quanto Adrianne si sia rifugiata nei boschi, lontana dal mondo, dai suoi problemi e dolori, un vento di disperazione e di morte spira in ciascuno dei brani, attraversati tutti, però, da un soffio continuo di speranza, di amore, di una sensazione fisica calda e potente che assomiglia a un abbraccio, un gesto che la solitudine sperimentata da Lenker e causata dalla pandemia hanno reso un ricordo lontano, accorato e sommesso. Eppure è questa unione viscerale e fatale di carne e di spirito, di sacro e profano, che pare essere l’unica via verso una qualche (non scontata) salvezza. È una via lastricata di ostacoli. È composta da ricordi, è fatta di resilienza, accetta l’abbandono, culla il desiderio, abbraccia i timori. È una declinazione se possibile ancor più personale e introspettiva di quelle laceranti giravolte temporali sperimentate coi Big Thief nella loro storia iniziata ormai cinque anni fa.
Se “UFOF” era il tentativo di entrare in contatto con certi spiriti interni (e intorno) a noi, gli “amici UFO” che ci permettono di costruire un rapporto con le realtà immateriale che non siamo in grado di catturare, e “Two Hands” era la rappresentazione arcigna, sanguinosa e sanguigna del nostro rapporto con quella terra che è rifugio e prigione, con quel corpo che è vita ma anche, per citare Platone, gabbia dell’anima, “songs” e “instrumentals” sono qualcosa di diverso da entrambi, perché Lenker torna a tuffarsi in maniera esplicita nel proprio spazio interiore, evocando demoni e precipitando sé stessa nelle proprie oscurità, dipingendo i vuoti e le assenze, calandosi psicanaliticamente dalle rocce più ripide della sua impalcatura di artista. Sembra di assistere allo schiudersi del suo pensiero. L’Io, presentissimo, pur essendo Adrianne è anche un altro. È forse proiettato nell’altro/a, in coloro ai quali si rivolge nei testi, in quel sofferente indistinto della intricata e lacerante “anything” o in quella «emptiness» di cui canta nella dylanesca “zombie girl”, un brano composto parecchi mesi fa e che aveva eseguito in Italia a febbraio con la band.
Nelle undici “songs” ci si muove di soppiatto, senza certezze o risposte, tastando, nel buio più profondo, i binari del percorso ormai abbandonato e in disuso di una vecchia linea di metro; dall’inizio alla fine Lenker cerca qualcosa, ma la via è un labirinto e i flash sono memorie di luce e contrasti di tenebra, sprazzi di gioia e di rabbia, di euforia e di dolore. È qualcosa, in realtà, che Lenker deve ancora realizzare, che costruisce e distrugge in itinere come un castello di carta, «not a lot, just forever», come ripete in maniera ipnotica nell’omonimo brano. Gli arpeggi onirici e la foschia formata dagli overdub di voce danno vita a un bosco di ricami e radici, un’aggrovigliata galassia di esperimenti e di riferimenti raffinati e fuori da ogni linea temporale. «I’m weightless in the sea», canta Lenker in “come”, mentre perde forma e sostanza; la sua figura svanisce in un tramonto leggero, siamo nudi e indifesi. «Is it a crime to do / What you ask me to?», chiede Lenker in “two reverse”, disperata, in ginocchio, una preghiera spietata che rimane in sospeso.
Siamo di fronte a richieste sincere, a paure ancestrali, a parole leggere che pesano come macigni. Sono epifanie velocissime, una torsione di collo per osservare chi c’è alle tue spalle, che scompare appena ne vedi l’ombra. Sono i fantasmi di “half return”, la neve soffice di Minneapolis, in versi pieni di nostalgia e di inquietudine: «Honey in your mouth when you gave me my name / Tears in your eyes when you pull it likе a chain». Gli splendidi arpeggi bucolici di “forwards beckon rebound” riempiono lo spazio e i polmoni. «Everything eats and is eaten / Time is fed», canta Lenker in “ingydar”, un flusso di coscienza luminoso e fatato, un fiume che scorre da un passato lontano fino a sfociare in un presente sfocato, turbolento ma anche accattivante. Lenker vuole respirare: «Returning to my oxygen», canta nella ossessiva “my angel”, che chiude songs con un finale brutale e tranciante. Nel corso del doppio disco, che rappresenta un progetto unitario, coerente e brutalmente affascinante, veniamo catapultati dentro sensazioni e vibrazioni. La musica scorre in modo fisico e naturale, mentre qua e là affiorano ronzii di insetti e qualche fruscio di vento.
A questa ricerca di pace interiore forse irraggiungibile concorrono anche i due brani strumentali, “music for indigo” e “mostly chimes”, che, più che jam di chitarra preparatorie e abbozzate, sono veri e propri esperimenti di fusione tra strumento e persona, un esercizio lungo e totalizzante, una passeggiata nei boschi rivelatrice e cruciale, dove pian piano l’orizzonte si accorpa a ciò che è intorno a noi; cielo e alberi e suolo formano un unico corpo; è musica che ha un sapore escatologico e liberatorio, solido e al tempo stesso frammentato, un puzzle di passi e di corse. «As the coastline is shaped by the wind / As we make love and you’re on my skin / You are changing me, you are changing», canta Lenker in “dragon eyes”. È il momento più alto, quello dell’agnizione, e gioiamo perché possiamo assistervi.
78/100
(Samuele Conficoni)