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Terzo appuntamento per “Linea Nota”, contenitore kalporziano di recensioni di libri musicali libero, trasversale per gusti e generi e soprattutto fruibile. Non solo libri appena usciti o recenti, non solo saggi musicali, ma anche testi di narrativa che abbiano la musica come stella polare del racconto, insomma, in estrema libertà pur sempre musicale.
Immaginiamo un’ostrica con tante conchiglie una dentro l’altra, come una matrioska, e una perla luccicante al centro. In venticinque anni di musica, Miles era riuscito a schiudere quelle conchiglie, una dopo l’altra. E la perla che lo aspettava era “Bitches Brew”.
Così George Grella Jr., compositore, raffinato musicologo e autore dello studio monografico dedicato all’album più discusso della storia del Jazz, “Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il Jazz”, descrive il parto di una mente geniale che più di chiunque altro ha contribuito alla diffusione presso il grande pubblico di un genere non privo di rigidità e irremovibili dogmi, orientandone la direzione molte volte, sempre sul punto di tradirne i presupposti: parliamo di Miles Davis, l’unico trombettista al mondo che per vivere ha dovuto inventarne parecchi di mondi. Se nella puntata precedente ci siamo concentrati sulla rivoluzione hip hop, e in quel caso a fare capolino trovavamo immancabilmente le ingiustizie e la realtà nuda e cruda della società americana, oggi concediamoci il lusso di fare un salto all’indietro, esattamente di cinquant’anni, anno di grazia 1970.
Quando pensiamo a Miles viene in mente Manè Garrincha, il dribblatore pazzo, il più geniale e il più improbabile della storia, soprannominato “l’angelo dalle gambe storte”, il giocatore brasiliano morto di cirrosi epatica il 20 gennaio 1983 a soli quarantanove anni. Perché andare in gol non è un’operazione lineare, talvolta occorre inventarsi un modo buffo e originale per farlo, magari utilizzando la magia di un gesto che l’avversario lì per lì non capisce. Questo era Garrincha: piegato in avanti con l’ossessione tipica di un virtuoso tarantolato, inimitabile nella sua fiera avversione a tutto quello che di ordinario offre il futbol.
Non che Miles Davis avesse le gambe storte, la sua eleganza aristocratica lo avvicinava semmai al concetto di Grazia, in totale controllo e armonia di sé e del rapporto con i musicisti di cui era guida indiscussa. Ma anche lui avrebbe fatto ricorso alla irrazionale assenza di una qualche pianificazione usando all’impronta note e simboli lasciati liberamente a fluire, in un gioco di “dribbling” sonori sempre più arditi. Dopo essere stato padre del cool jazz e del jazz modale, verrà la sperimentazione che più di tutte racchiude la pietra dello scandalo, quella del jazz-rock. Perché Davis senta l’esigenza di aprirsi a percorsi inediti legati al genere più importante di quegli anni, parliamo della fine degli anni ’60, non è molto difficile intuirlo: sperimentare ad libitum, contaminare generi diversi e cambiare nel profondo l’ossatura della propria musica sono tratti evidenti di tutta la parabola musicale del musicista statunitense. Ascoltiamo ancora Grella Jr.:
nessuno stile artistico può rimanere statico, pena l’irrilevanza, un rischio non minore dell’inevitabile declino di uno stile che è arrivato al capolinea.
Bitches Brew è esattamente il disconoscimento di tutte le parrocchie che fin lì avevano dato voce e rappresentanza ai fedeli del genere; incursioni pop e folk, funky ed elettronica, rock e avanguardia, musica concreta e psichedelia acida: ciò che ne risulta farà infuriare praticamente tutta la critica. Il pubblico invece premierà Miles facendone una grande icona della controcultura. L’azzardo del principe, per citare il titolo di un recente scritto di Guido Michelone dedicato proprio al disco, lo si coglie ascoltando i secondi iniziali, sufficienti nel porre l’ascoltatore di fronte a qualcosa di mai sentito prima.
Si comincia con Jack DeJohnette, uno dei due batteristi, che sul canale destro macina un beat sommesso e insistente fatto di quarti sul rullante e ottavi sul charleston. Un fugace ritmo di cassa – altrettanto sommesso – verso la fine delle due battute d’apertura annuncia l’ingresso di Chick Corea al piano elettrico. […] altre insistenti ripetizioni si sovrappongono, quelle del clarinetto basso di Bennie Maupin e della chitarra elettrica di John McLaughlin. Lenny White batte il charleston sul canale sinistro. Zawinul riprende il tema, così com’è. Young si inserisce con un accordo. Non c’è climax, nessun preludio a qualcosa di più grande e compiuto. […] la parola d’ordine, però, è calma. […] è musica esistenziale.
Ci sono almeno due elementi da cogliere: il primo risiede nella strabiliante bravura della band che accompagnò Miles nella registrazione dell’album e ciascuno dei componenti, a suo modo, fa parte della storia della musica Jazz; in secondo luogo il carattere intimo e profondo di una composizione indecifrabile eppure così “comprensibile”, nell’accezione emotiva che possiamo dare a questo termine. La bellezza di Bitches Brew è quanto di più moderno si possa concepire: un disco dall’anima inquieta senza confini che trae da ogni possibile l’origine della sua identità; un corpo vivido da cui trasuda, nel caos sonoro nitidamente stratificato, l’eros ritmico vivace destinato alla sua inevitabile consunzione. Qui le influenze di Jimi Hendrix sono evidenti, laddove il chitarrista di Seattle rimarcava con il gesto catartico di incendiare lo strumento il nesso indissolubile tra dimensione erotica e sacrificio. Una musica tanto colorata quanto oscura dunque quella del capolavoro davisiano, che poco concede alle aspettative dell’ascoltatore e che, anzi, ne mette alla prova la forza resiliente.
Non c’è nascita alcuna di tutte le cose mortali, né alcuna fine di morte funesta, ma solo mescolanza e cambiamento di cose frammiste.
Tranquilli, non è Osho. È Empedocle, un filosofo presocratico. Miles lo aveva mandato a memoria prima di realizzare Bitches Brew, e noi, anche di questo, dovremmo ringraziarlo.
(Alberto Scuderi)