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Voto: 1 su 5.
Ormai i film sono una superficiale elaborazione del trailer
L’ultimo film di Charlie Kaufman, Sto pensando di finirla qui, potrebbe entrare a far parte di un teatro di immagini che parla della solitudine.
Maestro nel descrivere il totale spiazzamento di fronte alla realtà e alle sue privazioni emotive, a questo giro l’autore di Anomalisa si diverte a incasinare piani, livelli di narrazione e slot temporali che neanche Jonathan Nolan nella serie Westworld (per buona pace dei fan su Reddit). Vuoi che a monte del “piano” ci sia un sadico desiderio di frustrare le aspettative di un pubblico viziato figlio del suo tempo; vuoi perché parlare di emozioni, in una delle epoche più anaempatiche della Storia, si rivela un territorio troppo doloroso in cui avventurarsi.
In fondo chi vorrebbe affrontare nuovamente quel campo minato che, ancora, ci ostiniamo a chiamare relazioni sentimentali? Chi vorrebbe fare la fine di Robert Capa in Vietnam? Io sì, ma sono anche la stessa persona che riesce ad addormentarsi solo leggendo biografie di serial killer. Ed eccomi qui, in questo non luogo: datemi tregua, sono figlia del postmoderno, e capisco la bulimia di citazioni di Kaufman che conferisce, oltre la carta da parati, quel “je ne sais quoi” al film per essere compreso appieno. Ma non è un giallo, o un horror, benché ricorra a quel “libro dell’inquietudine” che è la vita stessa per spaventarci. Tutto il filone da Scappa in poi è semplicemente fuori tempo massimo, e nel migliore dei casi ingenuo.
Sto pensando di finirla qui mi fa pensare che Kaufman sia completamente dissociato dalla realtà, perché basta aver a che fare coi vicini ogni giorno, per comprendere appieno quanto già sia oscena e brutale la quotidianità. Se nel caso di Se mi lasci ti cancello Kaufman dava tristemente prova di come i ricordi si riscrivano continuamente insieme a noi, nell’ultimo lavoro, lanciato su Netflix il 4 settembre, si acquisisce la devastante consapevolezza che siamo diventati totalmente incapaci di vivere la realtà. Dobbiamo immaginarla, simularla addirittura (un po’ come i sociopatici coi sentimenti) nella nostra testa. Per Kaufman il lavoro che ci aspetta come esseri umani è immenso, ma affidarlo alla fantasia può essere pericoloso. La realtà non potrà mai competere con un ricordo, con un morto!
Potremmo parlare del viaggio nella psiche femminile di Lucy (una graziosa quanto odiosa, perciò efficace, Jessie Buckley); del bisogno di riscatto della categoria white trash di Jake (Jesse Plemons), di cui Toni Collette e David Thewlis, nel ruolo dei genitori di Jake, sono perfetti ambasciatori; dell’alienazione e degli istinti suicidi, ormai non più problematiche relegate (almeno al cinema) alla sfera del maschile, ma tutto ciò di cui vuole parlare Kaufman è il rimpianto. Siamo alla mercé della nostra socialità, succubi del bisogno di corrispondenza da parte degli altri.
Forse è vero che l’uomo non ha più nulla da perdere se non il rispetto per se stesso, quel rispetto e quel riscatto (tema tanto caro agli americani) che, forse, arriverà per Jake e per le sue ambizioni artistiche negate dalla società.
Tutto sommato, credo che la solitudine sia l’unico vero scopo dell’artista, anche di quelli che non ce l’hanno fatta (ma cosa vuol dire farcela?), come Jake, un corpo celeste alla deriva. E noi con lui.
Sto pensando di finirla qui [I’m Thinking of Ending Things, USA 2020] REGIA Charlie Kaufman.
CAST Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis, Guy Boyd. SCENEGGIATURA Charlie Kaufman. FOTOGRAFIA Lukasz Zal. MUSICHE Jay Wadley.
Drammatico, durata 134 minuti.
(di Maria Eleonora C. Mollard)
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