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Ok, avete ragione. Dobbiamo cospargerci il capo di cenere per non esserci occupati di quell’”Untitled (Black Is)” che lo scorso giugno ha messo in luce questo straordinario collettivo che con i riflettori sembra in realtà non avere un grandissimo rapporto. Niente di così insolito in teoria: dalle cartoon bands come i Gorillaz alle maschere di MF Doom, dai caschi dei Daft Punk al totale anonimato dei Residents passando per quel Burial di cui ad oggi abbiamo solo il vero nome e un paio di foto, il mondo della musica è pieno di figure elusive. Qui però siamo a un livello ancora ulteriore: dei SAULT sono note solo la ragione sociale, i quattro album usciti negli ultimi diciotto mesi (!), e la città in cui operano (Londra). Niente apparizioni neanche in foto, niente nomi, niente di niente. I proventi dei loro dischi vengono destinati a organizzazioni di beneficenza, a rimarcare l’intenzione di non voler fare del business. Certo, ci sarebbe Forever Living Originals, l’etichetta che stampa i loro dischi; ma anche qui la loro home completamente nera non aiuta, offrendo solo l’opportunità di scrivere una mail i cui destinatari sono gli stessi SAULT.
Gli unici indizi arrivano da quei pochi credits stampati sui dischi (e riprodotti su Tidal) che rivelano le featuring in alcuni brani di Cleo Sol (anch’essa sul roster di Forever Living) e soprattutto il nome del produttore, Inflo, già alle redini dello splendido Grey Area di Little Simz oltreché collaboratore dei Jungle e co-autore di “Black Man In A White World”, la canzone di maggior successo di quel Michael Kiwanuka anch’egli featuring sul disco precedente dei nostri.
Ancora più di quanto avviene nei lavori menzionati sopra il tocco di Inflo sulla musica dei SAULT è del tutto down to earth, estremamente asciutto: non si percepiscono sovraproduzioni o effetti speciali a infarcire il suono, a renderlo in qualche modo da classifica o anche solo ammiccante verso il grande pubblico come potevano essere stati in passato i Go! Team o i suddetti Jungle. Anche qui come in quei casi si tratta di musica che insegue l’equilibrio tra tradizione e modernità ma questa volta l’aderenza alle radici del suono black resta ostentatamente in primo piano.
“Black Man In A White World” tra l’altro suona anche come il claim ideale per sintetizzare i contenuti del gruppo: che si tratti di sentimenti di protesta e di orgoglio piuttosto che di una celebrazione a tutto tondo della musica nera e soprattutto dell’essere neri, i SAULT mettono sempre e comunque il messaggio al centro di tutto. Prima dell’immagine, prima della fama e prima della forma. E se “Untitled (Black Is)” fin dal pugno alzato in copertina esprimeva sentimenti di rivolta successivi all’omicidio di George Floyd avvenuto appena due settimane prima, questo nuovo “Untitled (Rise)” senza ritrattare niente e anzi ribadendo a più riprese il concetto abbassa leggermente i toni: mani giunte in segno di preghiera in copertina e il funk e la disco sugli scudi a rappresentare il ballo e il ritmo come una consolazione, un conforto, un rintanarsi in quella tradizione che dai gospel nei campi di cotone fino alle prime feste hip hop nel Bronx hanno rappresentato per la gente di colore la più naturale via di fuga dalle ingiustizie cui erano sottoposti: emarginazione, schiavitù, repressione, violenza. Il gruppo cerca quindi di porsi come risposta moderna a quello stesso bisogno, e lo si dice espressamente in “I Just Want To Dance”: “I just want to dance/makes me feel alive /you won’t see me cry“. Quasi tutti i testi, pur utilizzando la prima persona singolare, sottintendono un “noi“: sono versi intenzionalmente semplici e diretti, come se fossero pensati per essere cantati in coro così come in qualche marcia.
La musica al contrario cambia spesso registro all’interno dei singoli brani, ma in una maniera così naturale da sembrare spesso un unico flusso di suono capace di non far perdere mai il filo all’ascoltatore e anzi alzare ulteriormente il suo livello di attenzione e coinvolgimento. Questa caratteristica, insieme al livello di ispirazione stellare dei brani, mostra i SAULT non solo come una band estremamente eclettica ma anche più fresca di quanto potrebbe sembrare. Se i sei minuti iniziali di “Strong” dal funk/r’n’b di marca 70’s sfociano in un tripudio di percussioni africane, nell’arco delle successive quattordici tracce lo spettro si amplia ulteriormente: funk e disco, come detto sopra, ma anche afro-beat (“Street Fighter”), boogie (“Son Shine”), jazz (“The Black & Gold”), lo spoken word caldo e lucidissimo dell’altra featuring Melissa Young (“You Know It Ain’t”), i fantasmi di George Benson e James Brown che aleggiano un po’ ovunque, perfino un paio di numeri (“Free” e “Uncomfortable”) che riallacciano i fili con i Massive Attack di “Blue Lines” (1991), ovvero un disco che proprio come questo riconfigurava echi e tradizioni passate nell’attualità di allora creando un amalgama terribilmente contemporaneo.
Disco (dischi) dell’anno? Difficile dirlo. Di sicuro, almeno per quanto concerne i contenuti, difficilmente troverete qualcosa che definisca il 2020 meglio di questo album e del suo predecessore, e questa urgenza insieme alla qualità e all’intensità rara di questa musica non rende azzardato dire che qui e ora i SAULT suonano già come un classico. Al decennio che comincia il compito di dirci se purtroppo o per fortuna.
90/100
(Simone Madrau)