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“Gold Record” di Bill Callahan è uscito appena un mese fa, un po’ presto forse per dedicargli un throwback. Eppure l’album in questione, il diciottesimo dell’artista se contiamo anche le incisioni a nome Smog, spinge ad alcune riflessioni che profumano di amarcord. È anacronistico dedicare oggi tempo e parole a un certo cantautorato vecchio stile, già sentito e risentito? Una ricetta a base di scarni accordi di chitarra, voce baritonale e racconti di provincia ha senso nell’epoca della più spregiudicata commistione di rap, r’n’b, soul ed elettronica sperimentale? Bill Callahan possiede ancora la stoffa necessaria per ritagliarsi uno spazio di ascolto accanto a, prendiamo un nome a caso, un’artista come Yves Tumor? Probabilmente la domanda è mal posta.
La musica di Bill Callhan è un costante throwback da un paio di decenni ormai. Sono lontani i tempi in qui confessava la propria inadeguatezza alla vita nella decadente poesia da strada di “It’s Rough”, così perfettamente incastonata nello Zeitgeist di metà anni ’90. Nel 2020 un cantautore 54enne che apre una canzone che parla di piccioni dicendo “Hello, I’m Johnny Cash” non può che
apparire alieno. L’anno passato Callahan era riapparso, dopo un silenzio lungo 5 anni, con il torrenziale “Shepherd in a Sheepskin Vest”. In 63 minuti di intenso folk minimale il musicista statunitense intrecciava cenni autobiografici – il recente matrimonio e il primo figlio – con acquarelli bucolici tipicamente americani, per arrivare a toccare temi universali come amore, vita e morte. A differenza del precedente album, il recente “Gold Record” si concentra ancora di più sul micro, sul quotidiano: colazioni di coppia, matrimoni di conoscenti, cene a casa dei vicini. Per il Bill Callahan la realtà non va interpretata, né spettacolarizzata, tantomeno presa come archetipo. La sua penna non ha mire seconde, cerca solo l’onestà, la radice, una luce accesa in casa la sera.
Se a chi scrive è concesso di tracciare dei paralleli letterari, allora Bill Callahan è un Cormac Maccarty senza violenza e nichilismo, un Kent Haruf libero da lirismo e melodramma. Con la sua chitarra, i suoi bozzetti rurali, la sua voce vecchia di mille anni, il cantautore ci conduce dritti nel vissuto fenomenologico, allo strato primo delle cose. Non è dato sapere se la sua resterà sempre una musica da ritorno al passato, da throwback, per l’appunto. Quello che è certo è che negli anni in cui le second life digitali stanno soppiantando le first life in carne ed ossa, in cui i nuovi adulti sono bloccati in una perenne adolescenza mentre i vegliardi vivono (e dirigono) in eterno, la musica di Bill Callahan suona come un’oasi di responsabilità in un deserto di disimpegno. In poche parole: vera.
(Stefano Solaro)