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Il mondo della critica e del giornalismo musicale presenta a volte dei paradossi che, visti dall’esterno, possono sembrare anche ridicoli. Il ‘caso Autechre’, se vogliamo, fa parte di questa cerchia. Spesso quando capita di parlare del duo di Manchester si può sentirsi dire: “ma se sono così speciali, perchè non lo spieghi a parole?”. E in effetti non è facilissimo descrivere la musica degli Autechre, spesso perfino quasi incomprensibile da uno stomaco digiuno di elettronica.
“Crystel”, Artificial Intelligence (1992)
“Bike”, Incunabula (1993)
Il cielo si apre e la luce, sempre più intensa, filtra tra le nubi in fuga. È “Bike”, traccia numero 2 dell’album d’esordio degli Autechre, “Incunabula”. In quel 1993 l’IDM è allo stato embrionale. A tracciarne la strada, l’uscita, a metà del 1992, della compilation “Artificial Intelligence” della Warp, disco che definisce i canoni di una scena che prenderà sempre più corpo con lo scorrere dei ’90.
E “Bike”, forse il più immediato tra i gioielli incastonati nel seminale “Incunabula”, ispirerà molte delle formazioni che negli anni successivi legheranno il proprio nome al movimento dell’Intelligent dance music.
(Tommaso Artioli)
“Silverside”, Amber (1994)
A sei mesi dagli albori di Incunabola (1993) – un collage di brani prelevati dagli scaffali della Warp, vicini ancora alla serie “Artificial Intelligence” – Amber (1994) è la prima uscita del duo pensata in partenza come album. Le formazioni rocciose delle montagne rosa della Cappadocia in copertina sono quasi l’unico elemento reale di un disco che dissolve le forme materiche nella ritmica pulsante dell’elettronica. A differenza di suoni destrutturati e minimali ancora più spinti di altri progetti futuri, tuttavia sul terreno si intravedono anche orme segnate da piedi umani. In Silverside può sembrare di camminare tra fredde lande in una marcia che ha qualcosa di epico. Non c’è solo il marchio meccanico del duo, ma dei beat un po’ funky, delle voci, anche se frantumate e distorte, il linguaggio dell’hip hop e un finale che è il prodotto digitale di un’orchestra classica. Amber è l’indiscusso apripista di una carriera prolifica che procederà in ulteriori mondi e dimensioni parallele in cui i contorni dei paesaggi saranno coperti da onde sinusoidali.
“Pen Expers”, Confield (2001)
Cosa sarebbe il mondo senza melodia? Gli Autechre ce lo hanno sempre fatto sapere, ma in “Confield” (2001) hanno accentuato questa loro predisposizione ai colori senza contorni. In quell’album, “Pen Expers” salvaguardia quantomeno il lato ritmico però destrutturandolo in maniera tale che oggi ci potrebbe sembrare normale, dopo Holly Herndon e gli altri esperimenti della pc music, ma nel 2001 non era assolutamente così. “Pen Expers” potrebbe essere associata a una metafora della vita di una macchina: si accende (nasce) e inizia a carburare; a un certo punto l’esperienza di funzionamento si fa anche piacevole e in sottofondo si scorge un synth alla Boards Of Canada, ma la fine non può che essere drammatica, e la macchina fatica, si ferma, riparte a singhiozzo, fino al termine finale. Che poi, se ci pensate bene, non è mica molto diverso dalla vita naturale.
“Pro Radii”, Untilted (2005)
“ilanders”, Oversteps (2010)
“known(1)”, Oversteps (2010)
Quando mi trovo a dover spiegare perché amo gli Autechre, mi capita spesso di far riferimento al fatto che i loro dischi suonino in un modo completamente diverso da qualsiasi altra cosa.
Nel caso di known(1), estratto da “Oversteps”, mi trovo a dover dire una cosa diversa: è un pezzo di 10 anni fa che sembra uscito dal 2020.
Parliamo di uno dei pezzi più odiati da una porzione “hardore” della fanbase di Sean e Rob. Personalmente ho sempre adorato il pezzo e le melodie che si intrecciano durante i suoi quasi cinque minuti. Per larga parte è il pezzo più analogico e meno extraterrestre della discografia del duo, poi irrompono senza bussare glitch e cacofonia.
Una serie di note altissime spaccano a metà la traccia ed il risultato è qualcosa che se uscisse oggi si descriverebbe come “a metà strada tra Lorenzo Senni e l’hyperpop”. Lo si potrebbe tranquillamente descrivere invece come il punto di incontro tra certi Coil (tipo quelli di “Ostia (The Death of Pasolini)”) e alcune cose dei Plaid. Forse anche in questo caso, come spesso accade con gli Autechre, ognuno riuscirebbe a trovarci dentro quello che vuole.
Non so se sia il pezzo più bello della loro discografia, sicuramente è quello più elegante, nonostante l’assoluta ruvidezza e assenza di patina.
(Carmine D’Amico)