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Matt ubriaco perso nelle notti di Cincinnati senza un posto dove andare; Matt che si sente meccanico e magro; Matt che dice a Karen che dovrebbe chiamare suo padre; Matt che raccomanda al sé stesso bambino di prendere un po’ di sole; Matt che svela di aver avuto un incontro segreto nello scantinato della sua mente; Matt scalmanato che urla “Mr November” in faccia al suo pubblico; Matt trasportato in Ohio con uno sciame di api; Matt mezzo sveglio in un impero falso.
Questi sono solo alcuni frammenti dell’immaginario collettivo che Matt Berninger è riuscito a dipingere nell’ultimo ventennio e nel quale tutti noi ci siamo in qualche modo rispecchiati: una sorta di realtà aumentata in cui le tenebre dell’incertezza, della solitudine e della depressione imperversano. Anche la visione della “prigione serpentina” che dà il titolo al suo primo disco solista pubblicato dalla Concord, è particolarmente evocativa dello spirito del nostro tempo: nel momento di uscita dell’album, Donald Trump è in piena rimonta sul rivale Joe Biden per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America, un Paese sull’orlo di una crisi di nervi che, pur continuando a essere la nazione simbolo dell’Occidente nonché la più influente al mondo per fattori economico-finanziari e per soft power, si riscopre particolarmente fragile e incattivito di fronte alle sfide globali. Da qui questo senso di prigionia, sofferto non solo a livello collettivo ma anche individuale, con il male che arriva a scalfire anche la sfera privata dei sentimenti e delle relazioni umane a cui ci si vorrebbe appigliare come ancòra di salvezza.
«Total frustration
Deterioration
Nationalism
Another moon mission
Total submission
I’ve seen a vision
Call electrician
Serpentine prison»
“Serpentine prison” nasce nell’anno sabbatico dei National, giunto a seguito della pubblicazione di “I Am Easy To Find“, la loro opera più collaborativa. Berninger, guidato dal produttore Brooker T. Jones, si lascia definitivamente alle spalle le atmosfere post-wave tanto amate dai fratelli Dessner e da Bryan Devendorf per sposare un pop orchestrale da camera che si dimostra da subito più affine alle sue corde e gli consente di esprimere sé stesso con una pienezza e un’onesta mai viste prima: se come frontman è sempre stato costretto ad adattare la densità dei testi e la profondità baritonale del cantato alla musica complessa della band di Cincinnati, da solista Berninger dimostra di avere tutto maggiormente sotto controllo, sceglie di rallentare tempi e ritmi in maniera quasi estenuante e di espandere il paesaggio sonoro attraverso la ricchezza e la cura maniacale degli arrangiamenti.
«It’s only god or the devil when you’re in it
And I’m always getting caught in the middle
It’s so hard to be loved so little»
A parte un paio di canzoni che rimandano direttamente all’universo National come “Take Me Out of Town” e “All For Nothing”, i brani seguono tutti questo processo di espansione sonora progressiva che genera luminosità: si inizia con tocchi delicati di piano, di synth e di chitarra su cui si innesta la voce calda di Berninger in un vortice lento che trascina la melodia verso esplosioni orchestrali toccanti. Notevoli in particolare i crescendo di organo in “One More Second”, del violino di Andrew Bird in “Oh Dearie” e degli archi in “Collar Of Your Shirt”. Se non fosse per il contrasto a tratti eccessivo tra semplificazione delle strutture sonore e complessità dei testi e delle visioni evocate, potremmo parlare di un disco perfetto.
“Just give me a little more time
Give me a little bit of warning
Baby, I’m gonna be fine
When I figure out where I’m going”
Mai come in questo album i testi rappresentano un autentico autoritratto di Matt Berninger, che ha rinunciato alle metafore e all’esoterismo che contraddistinguevano la sua scrittura nei National (a tal proposito segnaliamo un irresistibile e geniale contributo su Tumblr in cui viene messo a confronto il linguaggio comune a quello berningeriano) per una maggiore chiarezza della visione. L’autore di “Serpentine Prison” è un cinquantenne pieno di rimpianti e di ferite, che chiede ancora un po’ di tempo e di calore, terrorizzato dal trasmettere la propria ansia e l’alcolismo a sua figlia ma al contempo capace di descrivere come nessun altro la paralisi in cui si può sprofondare a causa della depressione. Berninger non raggiungerà mai lo stato di divinità di un Nick Cave o di un Leonard Cohen, ma è proprio per la sua capacità di mostrare a nudo le proprie fragilità e imperfezioni che rimarrà scolpito nella memoria collettiva.
75/100
(Emmanuel Di Tommaso)