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Small Axe è la nuova serie antologica di cinque film girati e prodotti da Steve McQueen e distribuiti in queste settimane in UK dalla BBC e in USA da Amazon Prime Video. I film seguono le vicende di alcune comunità caraibiche (per la precisione, utilizzando il termine anglofono, i «West Indian immigrants») a Londra negli Anni Sessanta, Settanta e Ottanta. I primi due, brillanti episodi, Mangrove e Lovers Rock, colpiscono nel profondo scolpendo un contesto di lotte e di riscatto, di dolcezza e di violenza nel quale la musica rappresenta tanto un atto di protesta radicale e una primigenia forza di liberazione quanto una potente cifra espressiva al servizio dello stile raffinato e incisivo del regista.
Le storie che Mangrove e Lovers Rock presentano sono molto diverse tra loro eppure indissolubilmente legate. La comunità che ne è protagonista è la stessa. Mangrove racconta la storia (vera) dei Mangrove 9, un gruppo di neri (ingiustamente) accusati di aggressione nei confronti della polizia nel corso di una manifestazione pacifica che era stata organizzata in seguito al vergognoso trattamento che, nel 1968, le forze dell’ordine avevano riservato al ristorante etnico Mangrove a Notting Hill, gestito da Frank Critchlow, trinidadiano interpretato dall’attore Shaun Parkes, che, insieme alla brillante Letitia Wright, è la vera colonna portante dell’opera. I nove accusati avrebbero scritto una pagina indelebile nella storia della giustizia anglosassone attraverso un processo epico e ostico, che oggi viene finalmente portato sotto i riflettori grazie al talento e al coraggio di McQueen.
Incise, senza troppi complimenti e con scientifica analisi, da un’organizzazione metodica, le due ore abbondanti e brutali di Mangrove sono percorse da un forte senso di ribellione che è insieme di contingenza e di universalità, un moto che – pare suggerirci McQueen – è fondamentale tenere vivo ora e per sempre. Lovers Rock, dalla sua, nei suoi scarsi settanta minuti, è un dipinto sensuale e poetico di una sincerità e una raffinatezza rare, venato anch’esso di momenti di tensione e violenza che, però, nel disegno generale non riescono a prendere mai il sopravvento. Lovers Rock – il titolo rimanda al “reggae romantico”, influenzato dal soul, dall’R&B e dal pop, in voga nel Regno Unito da metà Anni Settanta in poi – è una preghiera alle ore più seducenti e infide della notte ed è costruito intorno a una grande performance attoriale di Amarah-Jae St. Aubyn.
Uno degli elementi che unisce i film è il ruolo della musica tanto nelle vite dei personaggi principali e dell’intera comunità quanto nella costruzione dei film stessi. Il regista britannico, inoltre, non ha mai nascosto quale rilevanza abbia per lui la musica. È solito utilizzarla in maniera elegante e sapiente nei suoi film: si pensi, ad esempio, alla comparsa di “Wild Is the Wind” di Nina Simone in Widows (2018) mentre una malinconica Viola Davis riflette nel suo appartamento, o al gruppo di schiavi che, mentre raccolgono il cotone, intonano a cappella il gospel tradizionale “Roll, Jordan, Roll”, brano che Mahalia Jackson avrebbe reso indimenticabile, nel capolavoro 12 Years a Slave (2013).
Il reggae è un elemento portante della costruzione dell’intero progetto Small Axe, che deve il suo nome a un proverbio contenuto nell’omonimo brano di Bob Marley. Mangrove si apre con un pezzo dei Versatiles, “Long Long Time”, che passa in sottofondo dentro un bar londinese. Poco dopo, la sorniona passeggiata del protagonista è accompagnata da “Try Me” di Bob Marley & the Wailers, che continua in lontananza anche durante i primi dialoghi della pellicola. Il reggae è il genere che dà effettivamente il ritmo ai due film. Alcune sequenze sono letteralmente scandite da un levare che ha il sapore della riscossa e dalle frequenze positive che solo la libertà può emanare. Accenni di musica reggae emergono anche durante i preparativi della festa che farà da ambientazione a Lovers Rock, dove “Robin Hood” di Cry Tuff & the Originals procede, sussurrata, per alcuni minuti. La comparsa della splendida “54-46 Was My Number” dei Toots & the Maytals in un momento chiave di Mangrove rappresenta un trionfo sotto ogni punto di vista. Il suo incedere dirompente è la colonna sonora perfetta per dipingere nel modo più dissacrante possibile la situazione: «Do you believe I would take such a thing with me / And give it to a police man?». E con la incalzante “Pressure Drop”, sempre dei Toots & the Maytals, si conclude, con un tono combattivo ma conciliante, Mangrove.
Anche la musica tradizionale trova il suo spazio. In Mangrove, alcuni momenti di festa della comunità per le strade di Londra sono accompagnati da una banda del luogo. La gioia e quel senso di liberazione dei corpi che il ritmo trasmette si scontrano immediatamente con la fredda e disumana violenza dei poliziotti che si apprestano a effettuare la prossima ronda. È come se per McQueen la musica aiutasse sia il personaggio sia lo spettatore a costruirsi la propria coscienza di attivista. La Black Panther (qui de facto) Letitia Wright è la sintesi più alta di questo disegno. Il personaggio che interpreta coniuga splendidamente l’aspetto pragmatico della battaglia per i diritti umani con quello teorico della presa di coscienza della battaglia stessa. L’obiettivo si raggiunge soltanto attraverso le giuste letture critiche, lo studio delle leggi e il continuo abbracciare le proprie eredità culturali, tra le quali c’è, appunto, la musica nera.
In questo processo di liberazione del corpo e di presa di coscienza della necessità di lottare con asprezza e convinzione per i propri diritti, il momento del canto, dell’interpretazione personale di un brano, riveste un ruolo fondamentale. Ci sono, in questo senso, numerosi passaggi cruciali che definiscono le tappe di questo percorso. In Mangrove un gruppo locale canta nel ristorante etnico e una frenetica folla canta e balla per strada mentre segue una banda. In Lovers Rock le donne in cucina cantano “Silly Games” di Janet Kay a cappella, canta una delle protagoniste mentre si sta vestendo, la musica è elemento portante del party serale che occupa la maggior parte dell’opera. Ed è proprio nel corso del party che ricompare “Silly Games” nella sua interezza. Tutti ballano, flirtano, sognano; la canzone finisce ma le ragazze e i ragazzi continuano a cantarla formando un unico coro, un’unica voce paradisiaca che sembra contenere tutto il dolore e tutto l’erotismo del mondo. Vanno avanti per altri cinque minuti; la scena ne dura in totale nove.
È questo, forse, uno dei migliori momenti cinematografici del 2020. Sì, ma ormai è già passato. Si ritorna in the box. Parte “Turn Out the Light” degli Investigators. Ci sarà spazio per corteggiamenti, litigi e tentativi di stupro, ma il centro nevralgico resta il salone da cui proviene la musica. Inizia un pezzo di Augustus Pablo e cala di nuovo il silenzio. È un avvertimento, un invito, un inno di speranza e di pace che prende le sembianze di “Have a Little Faith” di Nicky Thomas e che sembra suggerirci, alla fine, che potremo salvarci: “For all lovers and rockers”.