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Non è dato sapere se e quanto Andrew Ferguson e Matthew McBriar – o per meglio dire, il duo che forma il progetto Bicep – siano amanti della letteratura inglese e in particolare di John Donne, ma se c’è una maniera retorica di introdurre il loro attesissimo secondo album allora quella maniera è citare le celebri scritte dal poeta britannico nel lontano 1624 a proposito del sentimento di solitudine umana, quelle per cui «nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso» ed eccetera eccetera. Non siamo isole, nessuno di noi è un’isola, non siamo autosufficienti e non siamo in grado di bastarci da soli, l’essere umano è tale solo in mezzo ad altri simili: sono argomenti che ad alcuni, compreso chi scrive, potrebbero far raggelare il sangue se contestualizzati nel tempo presente, nell’anno successivo allo scoppio di una epidemia mondiale il cui effetto sulle vite di tutti, nella migliore delle ipotesi, è stato quello di costringere le persone a vivere per parecchio tempo isolati dentro casa – sempre che uno sia poi stato abbastanza fortunato da averla, una casa.
Isole, dicevamo. Il secondo lavoro dei Bicep si chiama proprio così: “Isles”. In tutti i suoi quarantanove minuti di durata si avverte una potente tensione espansiva, come se le melodie e i beat, i synth e i campionamenti prendessero vita proprio da un’energia mai doma e dettata al movimento, all’esplorazione di nuovi territori. Una sensazione che oggi, nel 2021 e per mano di due producer irlandesi trasferitisi a Londra, porta con sé, volente o nolente, significati anche laterali: l’espansione come scelta contraria e opposta all’isolamento – scegliete voi se intendere tutto ciò come una questione di commistione e mutuazione artistica e musicale, come una faccenda psicologica o anche fisica, se collegarla al lockdown domestico ed affettivo, o perfino – perché no – alla definitiva realizzazione della Brexit. Più di come avveniva nel loro album precedente, quello che poi li ha resi un grande nome dell’elettronica internazionale, in questo disco i due producer/ex-blogger originari di Belfast lavorano infatti alla stratificazione di un suono che è – ed è nato per essere – volutamente, smaccatamente, orgogliosamente citazionista e derivativo. Cosa aspettarsi d’altronde da un duo che prima di essere un’entità creativa e produttrice di musica era stato, per anni, un blog dedicato alla musica elettronica (FeelmyBicep, aperto nel 2009)? Il riferimento ad altri suoni e la rielaborazione di influenze fanno parte della natura stessa del progetto Bicep, e in questo più recente episodio ne diventano parte ancora più evidente.
Il topic dell’esplorazione è il codice in sanscrito che permette la lettura di tutto l’album, rendendolo comprensibile in tutte le sue divagazioni musicali: il primo singolo uscito si intitola “Atlas”, ed è inserito come opener del pacchetto proprio per rimarcarne i suoi significati semantici. Si apre un atlante. Cuciti sul tappeto di caldissimi beat sincopati, da lontano arrivano echi riverberati della voce dell’artista israeliana Ofra Haza, di un magnetismo spirituale che sembra quasi affondare nell’ipnosi. Dentro “Apricots” compare un ulteriore innesto vocale, questa volta proveniente dalla Malesia. In “Hawk”, l’episodio finale e uno dei più ispirati di tutto il disco, ronzii elettronici costruiscono trame accelerazioniste su cui si infila la voce di Machìna, artista koreana di stanza a Tokyo. “Sundial”, uno degli altri singoli scelti per il lancio, si addentra in fascinose lande ambient irrigate da un sample bollywoodiano, asciugato dei barocchismi e reso etereo e intangibile come dei cirri soffiati dal vento. A tutte le parti vocali presenti nel disco Ferguron e McBriar applicano infatti un effetto eco, quasi come un vero e proprio codice espressivo: l’effetto finale è quello di voci che sembrano provenire da uno spazio vuoto lontanissimo. Che sia una specie di riferimento ai locali e ai club che i Bicep erano abituati a riempire stipati, e che in quanto spazi sociali e collettivi sono chiusi e inaccessibili da talmente tanto tempo da essersi trasformati in un offuscato e malinconico ricordo? Ci piace pensare che sia così.
La forzata assenza di una applicazione live di questi brani non influisce fortunatamente sul loro grado di resa ed efficacia. Oltre alle tracce già citate, “Isles” dimostra di essere un’opera degna di nota anche in diversi altri passaggi del disco, come ad esempio “Saku” e “X”, nelle quali è presente un featuring con la producer inglese Clara La San: la prima riprende un sound di stampo smaccatamente UK garage, la seconda rielabora canoni facilmente riconducibili alla techno di Detroit.
“Isles” insomma è un gesto artisticamente forte, e forse lo è anche in maniera inconsapevole: come si è già detto, i significati intrinsechi di questa fertile ossessione all’eclettismo musicale (e quindi geografico e quindi sociale) appaiono in questi giorni un fatto che non si può certo ignorare. Tornando alle questioni meramente musicali ed emotive, ci affascina non poco l’idea di poter godere, in un tempo futuro purtroppo non meglio imprecisato, delle versioni live di quest’opera, che gli autori stessi descrivono essere molto più potente di quelle finora ascoltabili. Ma il pensiero che ci sia ancora altro da ascoltare, rispetto a questo “Isles”, non genera una cieca bramosia per quello che ci è stato promesso: no, anzi, finisce per rendere ancora più intense le sensazioni che possiamo vivere ora, ascoltando quello che c’è. Ci si sente sicuramente meno soli: se è vero che nessun uomo può essere un’isola ma che talvolta può sembrarci il contrario, è innegabilmente vero che siamo nati per essere arcipelaghi.
77/100
(Enrico Stradi)