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Protester Ismail Bronson raises his fist at a peaceful demonstration at the Lincoln Memorial in Washington, D.C., on June 2, eight days after George Floyd’s killing. © André Chung
Ieri si è insediato il neopresidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden. Tutti (o quasi) abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché Trump non potrà più fare danni, ma Joe Biden (e la vicepresidente eletta Kamala Harris) dovranno ovviamente dimostrare quanto valgono. Abbiamo quindi pensato a sette canzoni su temi che saranno ineliminabili nel loro mandato. Alcuni punti stanno – a quanto pare – per essere affrontati fin da subito, nei primissimi giorni, come l’abrogazione del Muslim ban (il divieto nega l’ingresso in America a cittadini di alcuni Paesi musulmani) o il reingresso degli Stati Uniti negli accordi di Parigi sul Clima. Nel mentre che ci arrovellavamo sulle sette canzoni, poi, ecco che lo staff presidenziale ci ha anticipato e ha pubblicato su Spotify una “inauguration playlist”: poco male, ascolteremo anche la loro.
In bocca al lupo a Biden e alla sua nuova amministrazione… e ora viene il difficile.
BAD BUNNY, “Yo Perreo Sola”
Il terzo dei suoi tre album usciti nell’anno più infame del nuovo secolo, “El ultimo tour del mundo” è stato il primo album della storia interamente cantato in spagnolo a debuttare al primo posto di Billboard. Un traguardo storico e meritato per il giovane visionario talento portoricano che ha dato uno sguardo dissacrante, gender fluid e globalmente ispanico a due dei generi più influenti dell’ultimo decennio, la trap e il reggaeton.
Dalla prima elezione di Barack Obama gli ispanici sono diventati uno dei blocchi elettorali decisivi nel consolidamento della grande coalizione democratica.
Le nuove generazioni ispaniche stanno portando una nuova linfa creativa e stanno rendendo le periferie delle grandi metropoli americane dei luoghi più aperti e inclusivi, a dispetto della miopia di molti commentatori che hanno visto nelle presidenziali di novembre un netto recupero di voti latinoamericani da parte di Donald Trump nonostante le politiche spietate nei confronti dei migranti e dei figli degli immigrati di prima generazione.
La musica di Bad Bunny, che sarebbe stato e dovrebbe essere tra gli headliner del prossimo Primavera Sound è un inno alla libertà e all’enpowerment. A partire da uno dei luoghi di svago e sfogo simbolo, il dancefloor dove tutte le persone, quando potremo tornare a ballare, in un mondo ideale prima o poi si sentiranno liberə di muoversi e dimenarsi ovunque, senza sguardi viscidi o giudicanti (“Yo Perreo Sola”).
Come Alexandria Ocasio-Cortez, anche Bad Bunny ha Ocasio nel suo nome completo di battesimo (Benito Antonio Martinez Ocasio). Che sia di buon auspicio anche per gli USA, in tutti i sensi.
“El ultimo tour del mondo”, il nuovo album di Bad Bunny, ha debuttato in vetta alla classifica di “Billboard”: è un evento storico, perché è la prima volta in 62 anni di classifiche stilate dalla rivista statunitense che al primo posto delle vendite c’è un album interamente cantato in lingua spagnola.
Il disco (leggi qui la recensione) – il terzo pubblicato quest’anno dal rapper portoricano (vero nome Benito Antonio Martínez Ocasio) dopo “YHLQMDLG”, uscito a febbraio, e “Las que no iban a salir”, uscito a maggio –
Si sono fermate le discoteche e i club di tutto il mondo e forse questo break forzato ci può aiutare a ripensare il futuro dei dancefloor.
Sognare un club e un modello di club dove chiunque può ballare come vuole e ciò che vuole senza sentirsi una preda. In un ambiente aperto e protetto come ci ha insegnato Berlino e come accade(va) nei migliori club del mondo.
L’artista simbolo dell’ascesa planetaria del nuovo pop “urbano” latino rappresenta al meglio questa nuova prospettiva sempre meno utopica anche in mondi che finalmente si stanno aprendo a visioni femministe e LGBT come il reggaeton e il rap ispanico. “Yo Perreo Sola” ovvero “io perreo da sola” (dove perreo è il twerking del reggaeton).
La canzone è il quarto singolo dal bellissimo “YHLQMDLG” (“Yo hago lo que me da la gana” ovvero “io faccio quello che mi pare”) terzo album uscito in pieno lockdown per Bad Bunny che ha raggiunto un traguardo storico facendo esordire per la prima volta al secondo posto negli USA un disco cantato interamente in spagnolo.
Il ventiseienne portoricano ha anche diretto il video manifesto insieme a Stillz. Video che parla da sé e che si chiude con una massima esemplare da scolpire in testa: “se non vuole ballare con te, rispettala: lei balla da sola”.
SOLANGE feat. Sampha, “Don’t Touch My Hair”
“Don’t touch my hair/When it’s the feelings I wear/Don’t touch my soul/When it’s the rhythm I know” (in italiano: “Non toccarmi i capelli/Quando sono i sentimenti che indosso/Non toccare la mia anima/Quando è il ritmo che conosco”): l’intro di “Don’t Touch My Hair”, brano facente parte dell’album “A Seat At The Table” (2016) di Solange, è poeticamente identitaria: i capelli, come una sineddoche dell’anima, sono una parte per il tutto, per l’identità di una persona. I capelli nella cultura femminile e ancora più specificatamente afro-americana (ma non solo, anche nella cultura africana tutta) sono lo specchio del vissuto di una donna, con buona pace dell’Evening Standard che ha photoshoppato – salvo poi scusarsi – i capelli di Solange.
(Monica Mazzoli)
SUFJAN STEVENS, “America”
“America” di Sufjan Stevens esce il 3 novembre 2020, un giorno prima della festa dell’Indipendenza ed esattamente quattro mesi prima dell’Election Night statunitense: un posizionamento temporale che, volente o nolente, arricchisce il pezzo di più chiavi interpretative. C’è senza dubbio un racconto intimo e interiore, nel quale l’autore scandaglia i principi fondativi della sua fede e ne mostra le lacune e le contraddizioni. Ma potrebbe esserci anche una lettura politica, una sorta di confessione laica. «Don’t do to me what you did to America»: una critica – un’autocritica forse – ai risvolti malati di un rapporto di devozione che in quanto tale può rivelarsi cieco e quindi pericoloso. È un’ammissione di colpa: quando la fede diventa culto della personalità e smette di interrogarsi su quello che la circonda, non è altro che una pratica di adorazione fanatica. Se ascoltando “America” vi vengono in mente i pazzi eversivi di Capitol Hill e soprattutto il loro mandante morale, l’ex Presidente Donald Trump, forse non è una coincidenza: l’augurio per i prossimi anni (non solo per i prossimi quattro) è che rimanga un episodio isolato, superato dalla Storia.
(Enrico Stradi)
EMPRESS OF, “I’m Your Empress Of”
Durante la registrazione dell’ultimo album di Empress Of, all’anagrafe Lorely Rodriguez il che tradisce le origini honduregne, la cantante ha portato la mamma in sala d’incisione, le ha chiesto di parlare della sua vita e ha lasciato partire il nastro (ok, non ci sono più i nastri, allora facciamo che ha fatto partire il file wav…). Dei brevi spezzoni sono contenuti nella canzone d’apertura, “I’m Your Empress Of” e ci si ritrovano, con parole semplici, temi importanti: la difficoltà degli immigrati di imparare una nuova lingua, di integrarsi, e l’orgoglio di una madre verso una figlia che è come se rappresentasse tutte le figlie del mondo, in maniera più speciale perché c’è una comunanza femminile. Se vi sembrano argomenti da poco.
(Paolo Bardelli)
TOBE NWIGWE, “I Need You To (Breonna Taylor)”
«I need you to / Arrest the killers of Breonna Taylor». La violenza perpetuata dalla polizia ai danni delle persone non-bianche non è purtroppo un fenomeno che si può limitare agli ultimi tragici eventi, anzi è qualcosa di molto più radicato nella società americana. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti questo lo sa bene, e nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca ha parlato apertamente di lotta al suprematismo bianco: ecco, senza farci la benché minima illusione, un brano benaugurante per i prossimi quattro anni potrebbe essere questo di Tobe Nwigwe.
KELLY LEE OWENS, “Melt!”
Per sensibilizzare sulla questione ambientale, Kelly Lee Owens ha campionato il suono di ghiacciai che si sfaldano e di lame di skating sul ghiaccio per il suo primo estratto “Melt!” dall’album “Inner Song” del 2020. Perché sull’argomento viaggiamo davvero su un sottile strato che rischia di rompersi da un momento all’altro o, meglio, ha già dato dimostrazioni di essersi rotto.
(Paolo Bardelli)
SAULT, “Wildfire”
“The bloodshed on your hands
Another man
Take off your badge
We all know it was murder”
Chiaro, no?