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Da quando ho iniziato a scrivere di musica – l’altroieri, in realtà – mi è capitato spesso di chiedermi se avrei mai avuto occasione di parlare di Cosmotronic. Pubblicato il 12 gennaio 2018, erano i tempi in cui da un po’ lavoravo in radio e iniziavo a tenermi al passo con le uscite.
Cosmotronic era stato una boccata d’aria fresca in mezzo all’it-pop piacevole ma un po’ derivativo, un po’ indolente che mi aveva accompagnato nel mio biennio universitario a Torino, e una chiave di volta per scoprire quella città eternamente immersa nella pioggia, nella nebbia, nello smog o in tutte e tre le cose insieme, bella e grigia.
Da allora, per me, Cosmotronic è diventato una tradizione sempre più consapevole ma comunque spontanea: nei giorni di Natale ricomincio automaticamente ad ascoltarlo e fino a febbraio, di tanto in tanto, mi fisso su questo o quell’altro pezzo, o lo riascolto tutto insieme. Questo album l’ho anche sentito suonare da Cosmo due volte, alla presentazione in Porta Nuova da Feltrinelli (dove ci siamo passati, dalle prime alle ultime file, lo spumante che Cosmo aveva stappato. Pura fantascienza) e poi alle OGR, in una luce blu fortissima.
Avevo appena scoperto le dirette su Instagram e mi ero sentita in dovere di puntare il telefonino addosso a Cosmo per una parte decisamente eccessiva della durata del concerto; alcuni pezzi li ho registrati interamente perché sentirli dal vivo era sentire raccontare la mia storia di quegli anni sempre incerti. Senza giudicarmi egoista, però, perché quest’album riesce a parlare di tutti coloro che lo ascoltano ma anche di ciascuno in particolare: è un disco democratico che in quanto millennial, prima ventenne e ora ormai più verso i trenta, sento rappresentarmi più o meno dalla prima all’ultima canzone. Cosmotronic è un disco nazionalpopolare, nel senso più innocente e felice del termine.
Non mi sono mai chiesta nel dettaglio perché lo sia, questa è la prima volta: banale dirlo ma funziona, innanzitutto, perché quei testi sono accompagnati da quei beat e viceversa. Due anni dopo “L’ultima Festa”, la prima traccia partita in sordina esplode all’improvviso con il suono di una rinascita. “Vorrei cantare bene al primo colpo/Vorrei scrivere una canzone in un minuto/Fare tutto in un unico concerto”: chi non ha mai pensato di voler arrivare da qualche parte nella vita saltando la parte dei fallimenti e dei tentativi andati a vuoto? Da lì, l’album viaggia su montagne russe che trascinano da un polo all’altro del proprio mondo e di quello al di fuori, da canzoni d’amore generazionali a pezzi altrettanto generazionali spensierati e fintamente anarchici, fintamente antiborghesi, autoironici ma anche tremendamente seri, filosofici addirittura. “Turbo” e “Tristan Zarra” sono le canzoni pre-serata per eccellenza, quelle in cui esci proprio pensando “Quanto spacco con ‘sta giacca”, e sai che andrai incontro a una notte con tutti i crismi. “Sei la mia città” è una canzone verso la quale ho persino dei sensi di colpa perché, dopo cinque anni di eterno pendolarismo, l’ho rivoltata come un calzino tra un ascolto sul treno e un altro: la canzone ideale dell’amore instabile, entusiasta, cinematografico di una generazione che aspetta i pacchi da casa e le telefonate su Skype, a sempre più chilometri di distanza dal proprio centro fino a rimanerne priva, persa nel turbine cosmopolita e vertiginoso del nuovo presente ma che come ogni altra continua a fare le solite cose dell’essere umano e quindi anche a innamorarsi.
In Cosmotronic c’è anche il senso più profondo e primigenio dell’EDM, la perdita dell’io durante un live set in cui si respira gli uni addosso agli altri, si urla si poga eccetera, una normalità ora sognata e sempre più preziosa da ritrovare nell’ascolto:
“E quando arriva la scossa ci vogliamo abbracciare/In questo delirio, in mezzo alla gente/Arriva l’amore, non capisco più niente/Il meglio di te, il meglio di me/Ti scopri speciale, in fondo un po’ ti vuoi bene/È come in un sogno incredibile/Magari poi non è vero, però adesso ci credo”.
La prima parte dell’album riassume un elenco potenzialmente infinito di sentimenti e stati d’animo cosmici e italiani, collettivi e individuali, con una cassa in quattro che anche quando fa da sfondo alla voce non molla mai e dei beat che sono quanto di più vicino ci potrebbe essere a una immaginaria versione acustica dei pezzi pur senza esserlo davvero: suonano familiari e intimi e, al tempo stesso, sempre nuovi ma soprattutto rimangono, a oggi, insuperati nel panorama della musica italiana in senso stretto. La seconda, invece, libera ed espande la dimensione prettamente dance del disco: la voce diventa sample intermittente, il ritmo invita a una soluzione live che possa renderlo degnamente (“per godermi davvero questi pezzi dovrò sentirglieli suonare dal vivo”). Finché i beat non si mescolano alle voci e non c’è più confine tra gli uni e le altre. Si balla oppure si dorme mentre si aspetta il giorno dopo: “La notte farà il resto.” In Cosmotronic tutto è in equilibrio, la musica è seta.
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I suoni, i ritmi e le parole di questo disco sono probabilmente il meglio che potesse succedere, nel 2018, alla musica italiana tenendo conto di ciò che era stato prima, di ciò che era in quel momento e, forse, anche prevedendone il dopo. Non so se Cosmo sarà profetico nei suoi prossimi album, ma in Cosmotronic di sicuro lo è stato (e quanto). Provate a riascoltarlo anche voi.
Ndr: sul nostro sito trovate anche una recensione di Francesco Melis scritta ai tempi dell’uscita (e di certo più obiettiva del mio articolo).