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“I have nothing to say and I’m saying it. And that is poetry as I needed it”
(John Cage)
Il fotografo giapponese Masao Yamamoto (Gamagori City nella prefettura di Aichi, Giappone, 1957), fortemente ispirato dalla filosofia Zen, ha creato uno stile orientato alla ricerca spirituale dell’idea di bellezza.
Ancora negli anni ’80 iniziò una serie di lavori di piccolo formato, intitolata Box of Ku, che fossero leggibili come degli Haikus, per incoraggiare l’osservatore ad estrarre i propri ricordi e le proprie suggestioni davanti a piccoli e semplici oggetti catalizzatori di memoria.
Queste immagini senza tempo sono infatti considerate da Yamamoto essenzialmente come elementi materiali, oggetti da toccare, manipolare e ridefinire.
“Mi piace l’idea che le mie immagini possano sembrare quelle di un anonimo fotografo di chissà dove e chissà quando, trovate per caso in qualche mercatino delle pulci, dotate di fascino e mistero tanto da permettere a ciascuno di scoprirle e inventarci sopra altre storie, le proprie storie…”
In una delle sue serie più recenti (Kawa=Flow) Yamamoto usa la metafora del fiume per dedicarsi, insieme all’osservatore, ad una specie di processo meditativo.
Una riflessione sulla natura e sull’interiorità attraverso l’uso di immagini evanescenti e delicate in bianco e nero oppure virate in tonalità beige, nel dichiarato tentativo di “rivelare l’ordinario come qualcosa di straordinario”.
Del lavoro di Masao Yamamoto (molto popolare in Italia), mi colpisce proprio questo: le sue immagini non hanno nulla da dire, non vogliono significare nulla, ti trasportano in una sorta di vuoto tangibile, in un dialogo con tempi e riflessi fuori dal tempo stesso.
Ma soprattutto queste foto esistono nel silenzio, nel silenzio che impongono alla mente, lo stato necessario per entrare in un diverso principio di osservazione (dove, dall’altra parte dell’immagine, non ci sei altro che te che osservi) e di ascolto, di suoni e movimenti, di rumori e fruscii che l’esterno-interno del mondo regala, e che sta a noi trasformare in musica.
John Cage, nato a Los Angeles nel 1912 e morto nel 1992 a New York, è stato il compositore sperimentale americano più influente (e più discutibile) del ventesimo secolo. È stato considerato (ma lui non ha mai detto di esserlo) il padre dell’indeterminismo.
Un artista ispirato dallo Zen che ha espulso tutte le nozioni della scelta dal processo creativo. Rifiutando la conseguenza logica in quanto principio di composizione
Cage ha elaborato un linguaggio personale e rivoluzionario partendo dalla dissacrazione totale delle regole musicali classiche e tradizionali. Una sua invenzione sono le composizioni per “pianoforte preparato”.
Scartava la costruzione musicale basata sulla struttura armonica in favore di una struttura ritmica, intesa semplicemente come successione di durate, che potevano ospitare qualsiasi suono.
L’opera musicale di John Cage ha suscitato una di quelle reazioni tipiche nella nostra cultura: tutti ne hanno parlato ma quasi nessuno l’ha ascoltata.
Io, come molti, ho sempre pensato che il lavoro musicale di Cage – che pure conosco e, con qualche difficoltà, apprezzo – non sia prescindibile dalla sua essenza, dalla sua presenza nel mondo in quanto interprete del mondo stesso, più un filosofo che un musicista, anzi: un musicista che voleva seguire il principio Zen di assoluto/vuoto, e che, quindi, si rivolgeva alla musica come manifestazione del vuoto e della natura in senso più lato.
John Cage è stato autore di libri secondo me bellissimi.
In uno di questi, Per gli Uccelli, che è a metà tra la autobiografia e la teoria musicale applicata alla filosofia zen, è contenuta l’affermazione che più mi ha colpito e che più me lo ha fatto amare (vado a braccio): non c’è nessun bisogno di comporre, di scrivere della musica, la musica c’è già, la musica è nell’aria, è nella natura e nei suoni e nei rumori che ci circondano… scrivere musica vuol dire catturare questi suoni, o anche per difetto, catturare il silenzio, che vale allo stesso modo.
Penso a lavori quali Imaginary landscape e First construction (in metal) del 1939, in cui ogni regola tecnica viene oltrepassata per lasciare spazio ad un’espressione che trasforma ogni suono casuale in musica e dove la forma e l’interpretazione vengono lasciate alla libertà dell’interprete, tanto che in molte composizioni l’autore si limita solamente a prescrivere all’esecutore diversi comportamenti legati ad stati d’animo, senza preoccupazioni per i risultati sonori.
La partitura 4.33, che può essere utilizzata come manifesto complessivo dell’estetica e della filosofia di Cage, è in realtà un momento bianco, privo di musica, ove – per la durata di tempo che dà il titolo al brano – la musica viene creata dai rumori della sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall’esterno.
Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza totalmente insonorizzata, perché anche lì uno sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo.
Durante il primo movimento di questa leggendaria prima esecuzione del brano (n.d.R.: 29 agosto 1952, Maverick Concert Hall, vicino Woodstock, New York, ad opera del pianista David Tudor), si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
Diceva Cage stesso:
“Sentivo e speravo di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto “.
Ma ovviamente non è stato così.
Visto di volta in volta come un genio, come un fenomeno da baraccone, come un ciarlatano, o comunque sempre controverso, Cage ha portato avanti la sua grande avventura fino al 1992.
Io ho avuto la fortuna di incontrarlo (due volte: nel 1978 e nel 1989) e non dimenticherò mai la sua espressione serena e sorridente. E’ l’unico personaggio famoso da cui mi sia fatto fare l’autografo, che conservo devotamente sulla sua foto.
L’altro suo folgorante libro, A Year from Monday, contiene, in una forma espositiva e grafica frequentemente affidata al caso, anche numerosissimi brevi aneddoti di sapore decisamente Zen.
E’ uno di quei libri ai quali ritorno sempre nei momenti difficili della mia vita, uno di quei libri dove non è necessario capire, trovare riflessioni, interpretazioni, ricette, ma solamente sentire la musica del tempo, del vuoto e della vita, pensare che, in fondo, noi stessi siamo musica, lo siamo sempre stati e torneremo ad esserlo.
E’ uno di quei libri che mi servono quando corro il rischio di prendermi troppo sul serio… perché quando lo metto giù mi sembra di sentire la sua voce che dice ridendo: “ma va….”
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