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Proporre musica nuova, oggi, non significa necessariamente arrampicarsi su immaginifici specchi o cercare di rendere complesso un naturale flusso di coscienza; essere nuovi, oggi, è essere reali, con tutte le conseguenze del caso. L’avanguardia non sarebbe tale se dietro un rumore di bicchieri rotti non ci fosse un cuore pulsante che riproduce lo stesso frantumarsi, lo stesso dolore di aver perso qualcosa. Il rumore è solo una parte del processo creativo; non è lì che si cerca il nuovo, ma è lì che lo si vede nascere. Il dolore, per questa giovane musicista londinese è stata la scintilla, il punto di partenza per generare questo incredibile debutto; “Common Turn” è un disco che dalle ceneri di un amore malato cerca di svilupparsi in maniera “classica” (chitarra e voce) ma poi diventa “nuovo” perché lascia a briglie sciolte l’emozione.
Non trattenendosi, tutto si sviluppa in maniera non convenzionale, per cui, nonostante i riferimenti vadano a tirare giustamente in ballo Jeff Buckley (cioè, un immortale, baciato dalla grazia), questo disco vive di luce propria perché ha una sua genesi e si modella strada facendo, intrappolando nella tradizione piccoli elementi anomali quali esplosioni quasi danzerecce dopo la calma apparente (“Two”), pathos in crescendo che altalenano chitarre, urla e silenzi (la stupenda “Chelsea Hotel #3”) e letterali squarci di luce, intuizioni melodiche e soavi aperture alla vita anche quando le parole cercano di raccontare quanto sia difficile avere dimora nell’incertezza (“Corncrakes”).
Debutto incredibile, sofferto, magico.
80/100
(Nicola Guerra)
foto in home tratta da FB ufficiale dell’artista
fotografo non individuabile