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Il secondo album della newyorchese Cassandra Jenkins è un’analisi profonda e brillante di ciò che la cantautrice vede scorrere intorno a sé. Attraverso scatti incisivi e vividi, “An Overview on a Phenomenal Nature” prova a conciliare il modus vivendi della cantautrice con il cosmo che lo contiene, il suo universo con quello circostante, e lo fa attraverso momenti e sentimenti, emozioni e torsioni e istantanee di un mondo bagnate da atmosfere al tempo stesso fiabesche e realistiche.
Ci sono storie, ricordi, vere e proprie fotografie, la città, la natura, il cemento e le foglie, cinguettii di uccelli e sognanti sassofoni, leggeri tocchi di piano e malinconiche pennate di chitarra. La voce di Jenkins è la voce di chi cerca la verità con la lente, tocca il mondo con mano e lo scopre con lo stupore sincero di un bambino curioso. E in poco più di mezz’ora – sette brani soltanto, di cui l’ultimo strumentale – Jenkins sembra riuscire a passare in rassegna le sensazioni e le pulsioni più diversificate e profonde.
Le melodie, le parole e la strumentazione conducono Jenkins nel luogo giusto e al momento giusto. Talvolta ci si trova di fronte a rivelazioni improvvise, come all’inizio di “Michelangelo”, che apre l’opera: «I’m a three legged dog / workin’ with what I got / and part of me will always be / looking for what I’ve lost», canta Jenkins sussurrando, con quell’approccio vocale che caratterizzerà per intero il disco e che spesso finisce per assomigliare a un vero e proprio spoken word, come accade nella splendida “Hard Drive”, il momento più travolgente ed emozionale del disco, un tortuoso e a tratti claustrofobico viaggio nel mondo e in se stessi che in qualche modo è cartina tornasole dell’album. Inizia con la registrazione delle parole di una guardia di un museo di New York e continua con la descrizione di questo incontro da parte di Jenkins. È una sorta di dettato – più che di monologo – interiore: lo comunica a noi, certamente, ma sembra raccontarlo prima a se stessa, quasi come se dovesse mettere ancora a fuoco le idee e la ricerca che si accinge a esporci: «The mind is just a hard drive», ripete come un mantra Jenkins.
Fugaci comparse di misteriosi personaggi inondano il disco: conoscenti, amici, incontri casuali, come la guardia e il “bookkeeper” di “Hard Drive”. Ogni comparsa, tuttavia, non è mai una semplice e opportuna parentesi; ci troviamo di fronte a piccole monografie, mini-capitoli di un’enciclopedia immensa che Jenkins va (andrà) costruendo, e ogni tassello del puzzle significa qualcosa nel gioco ma anche in senso assoluto. Ad alimentare l’approccio positivamente enciclopedistico dell’opera è l’ariosa strumentazione che inonda le canzoni, da batterie incalzanti a levigate chitarre, da registrazioni “di strada” (e “di natura”) a bassi sempre perfettamente modulati e ritmati.
Anche gli altri episodi, come la melanconica “Crosshairs” e la potente “New Bikini”, si muovono in questi binari, rilanciando un connubio perfettamente integr(at)o tra acustico ed elettrico, tra incandescente e ghiacciato, tra speranza e tristezza. La voce di Jenkins resta sempre a metà tra un sussurro e un parlato e quando prova a cantare tradizionalmente trova subito un volontario inciampo, che sia nella musica, nel ritmo o nel testo, che rende i pezzi apparizioni improvvise, spiriti nella nebbia che giocano a nascondino, che a tratti si mostrano e a tratti si nascondono. Brani come “Ambiguous Norway” agiscono proprio come una luce nel buio che si accende e si spegne, indicando ma non mostrando, mormorando ma non dicendo, e vivono di questa splendida ambiguità. E forse è il percorso stesso del disco a implicare, dopo la ieratica “Hailey”, la conclusione strumentale di “The Ramble”, chiusura necessaria del discorso, onirica e dolce, che offre i titoli di coda a un disco decisamente riuscito.
76/100
(Samuele Conficoni)