Share This Article
Da qualche giorno rimbalza tra i media e i social network una notizia secondo la quale Spotify potrebbe “ascoltare le nostre conversazioni”. Dopo due anni dal deposito del brevetto, il 12 gennaio è stato approvato il cosiddetto “Identification of taste attributes from an audio signal“. In verità il meccanismo alla base di questa tecnologia non consentirebbe a Spotify di capire le nostre conversazioni, ma semplicemente di riconoscere sommariamente il nostro stato d’animo in base ai toni percepiti (suddividendolo in felicità, rabbia, tristezza o un mood neutro) e di distinguere i suoni che ci circondano in modo da determinare quale sia l’ambiente nel quale stiamo utilizzando l’app.
A questa notizia è seguita la consueta polemica rispetto al limite entro il quale sia consentito estrapolare dati degli utenti. Il rischio temuto da molti è che non vengano utilizzati solo per migliorare l’esperienza di chi le utilizza ma per essere rivenduti a terzi; nel timore collettivo, quindi, di una sottrazione totale della nostra privacy e di una situazione sempre meno distopica e sempre più incombente nella quale le piattaforme saprebbero talmente tante cose di noi da arrivare a manipolare le nostre scelte più di quanto già non stiano facendo ora.
Niente di nuovo, insomma: che lo si faccia tramite i suoni o un altro tipo di data mining, Spotify continuerà a fare quello che ha sempre fatto per suggerire la musica “più adatta” a noi (eliminando il piacere della scoperta e promuovendo la solita e confortevole echo chamber alla quale siamo sempre più abituati su Internet: ma questa è un’altra storia o meglio, un’altra polemica). Tutto questo forse distrae da problemi altrettanto gravi: ricordiamo che Spotify e altre piattaforme di streaming utilizzano il sistema pro rata. Se prima, infatti, i download digitali consentivano un guadagno paritario per tutti, il pro rata che ha preso piede negli anni Dieci (tolta la percentuale riservata alla piattaforma) destina l’importo totale dei canoni mensili degli utenti agli artisti che hanno totalizzato più ascolti: artisti che magari un utente non ha mai ascoltato, ma che in base a questo calcolo ricevono comunque parte del ricavato del suo abbonamento. Questa scelta, ovviamente, ha creato una forte disparità tra la fortunata élite di artisti da top charts e “tutti gli altri”. Se aggiungiamo che nel novembre del 2020 Spotify ha lanciato, negli Stati Uniti, la funzione “Discovery” per la quale i musicisti che la utilizzano otterrebbero maggiore visibilità in cambio di una percentuale più bassa sulle royalties, determinando un ulteriore aumento del divario tra gli artisti che controllano il mercato in grado di permettersi un minore guadagno e tutti gli altri, è facile capire quanto la situazione penalizzi sempre di più l’esistenza di una possibile democraticità del mercato discografico.
L’utilizzo del pro rata determina anche cambiamenti intrinsechi alla struttura stessa della musica: le canzoni più lunghe della media sono sfavorite dal sistema perché a parità di minuti di ascolto corrispondono a un numero minore di streaming totali. Tutto questo sta già avendo conseguenze sull’accorciarsi progressivo dei brani, come pure sulla struttura sempre più spesso volta alla ricerca del tormentone che possa generare più ascolti possibili. Anche la scelta sempre più frequente di centellinare gli album e dilatare i tempi di uscita pubblicando un singolo dopo l’altro, d’altronde, corrisponde al tentativo di fare fronte a queste regole sempre più complicate e ottenere il maggior numero possibile di ascolti per ritagliarsi una piccola fetta di ciò che ogni mese viene destinato agli artisti dalle piattaforme (di questo fenomeno specifico chiamato “spotification” si era già parlato qui).
Qualche segnale positivo arriva dalla consapevolezza sempre maggiore di queste problematiche, soprattutto in seguito all’assenza di concerti dovuta alla pandemia che ha messo l’accento su quanto ormai sia impossibile, per la maggior parte degli artisti, guadagnare a sufficienza tramite le piattaforme. Ma l’uscita di titoli e news che accusano Spotify di “spiarci” non fanno che sviare l’attenzione dal pericolo di un mercato dominato da grandi realtà più interessate al proprio guadagno che alla sopravvivenza e alla tutela della musica, di chi la crea e di chi la ascolta.
Altri articoli utili ad approfondire il fenomeno di Spotify e delle altre grandi piattaforme di streaming:
Linkiesta: Ricchi e poveri. A chi vanno (davvero) i soldi delle canzoni in streaming
Business Insider: Una musicista ha calcolato al centesimo quanto l’hanno pagata Spotify, Apple Music, Pandora & Co nel 2019