Share This Article
Qualcuno ha detto che “casa è dove si trova il cuore” e, Mike Milosh, forza motrice sensuale e melliflua del progetto Rhye, nell’ultimo album “Home”, deve aver preso questa citazione alla lettera. Molto è cambiato dal debutto del 2013 con “Woman” e il successivo “Blood” che si muovevano su un terreno sonoro seppur rivoluzionario, con tratti distintivi ben precisi. Prima che Rhye emergesse dalla foschia che ne oscurava l’identità, sembrava che quella voce potesse appartenere a chiunque. Ma qualunque voce perde la sua scintilla se non c’è niente che la ravviva e, Milosh, non si era però mai spinto oltre il confortevole uno-due di “Open” e “The Fall”, che fanno di Rhye il biglietto da visita. “Home” invece inizia a spostarsi verso una nuova direzione, più audace e lussuosa, si adagia nel comfort degli svolazzi orchestrali, lasciando fluttuare i brani che mai prima d’ora sono stati circondati da un’aura simile, lasciando l’ascoltatore bramoso di averne di più.
Come un’ouverture, la prima metà ci introduce alle influenze stilistiche, ai motivi melodici e ritmici dell’album. Per quanto banale possa sembrare, questo terzo lavoro sembra composto da due metà che si contrappongono in cui l’ambizione degli arrangiamenti e delle melodie, non sempre trovano terreno fertile in una esecuzione impeccabile. Ciononostante, il risultato da vita ad un lavoro distillato e ricco di sfumature, finemente modellato che l’essenza stessa dell’arte che vuole esprimere.
Le tredici tracce vengono avvolte magnificamente da “Intro” e “Outro”, due intimi a cappella cantati dal Danish National Girls ‘Choir. La trama contrappuntistica risplende mentre le giovani voci si intrecciano creando armonie apparentemente accidentali, uno stato di grazia in cui si resta sospesi assieme alle note. Si percepisce una simile intimità anche in “Hold You Down”, quando il coro fa capolino fondendosi con gli ottoni per poi chiudere, in maniera sublime e del tutto inaspettata, quello che, poco prima, era un semplice funky dalla chitarra elettrica un po’ kitsch.
Il singolo principale “Beautiful” è un funk alla Barry White, che fa oscillare la testa, dove di tanto in tanto, un sintetizzatore sfreccia come se fosse di passaggio, lasciando spazio al groove invitante. Così come il predecessore, anche “Safeword” rimane fedele al titolo rassicurante, un ritmo costante di delicate chitarre spagnole, si abbandonano al suono di synth e flauto ricreando una sensuale conga.
“Helpless” e “Black Rain” racchiudono le qualità migliori degli ultimi due lavori, un mix di suoni e ritmi soul-disco-funk che si sposano talmente bene, da generare due perle su cui la voce di Milosh appoggia alla perfezione. Rhye si è sempre divertito a combinare suoni acustici e sintetici, a volte fondendoli perfettamente, altre, mettendoli in contrasto tra loro. Dopo questa svolta disco, l’album continua a colpire nel segno, canzone dopo canzone. L’atmosfera da dancefloor, non è l’unica freccia all’arco di Rhye.
“Fire” mostra la capacità di Milosh di scrivere ballate minimaliste ed introspettive; “Sweetest Revenge” con il groove di synth sommersi e gli scattanti hi-hat, rimanda a una giovane ed acerba Sade, mentre in “My Heart Bleeds” le liriche profonde mostrano una sofferenza taciuta: “Like it or not, we’ve got to feel some change / Come together now/ Like it or not, this place has got to move in different ways”. Qui il sound avvolge il crescendo melodico, pervadendo l’ascoltatore quasi come fosse in grado di abbracciarlo.
Nonostante nella prima parte dell’album ci sia qualche scivolone, la bellezza di alcuni brani, fa passare in secondo piano qualsiasi défaillance. “Home” è uno sforzo ambizioso e contiene alcune delle musiche più stimolanti pubblicate da Rhye fino ad ora.
Mentre l’ultima nota aleggia nell’aria, il senso di pace si fa predominante. Sentiamo che nuovi inizi sono possibili e che, qualunque cosa accada, avremo sempre un posto in cui trovare rifugio. Quello è il posto che chiamaremo “casa”.
69/100
(Simona D’Angelo)