Share This Article
“In Ferneaux” è un concept dilatato e d’ambiente, costituito da due tracce di una ventina di minuti l’una. Ma prima di dire cosa non funziona del tutto qui, sarebbe il caso di ribadire cosa ha funzionato fino a questo punto della carriera solista di Benjamin John Power. Il marchio Blanck Mass (attivo dal 2011 e sempre su Sacred Bones) si è progressivamente svincolato (in termini di rilevanza nonché stilistici) da quello dei Fuck Buttons. Un percorso di sintetizzatori, incursioni industriali e EBM, epica, casino e senso della melodia spietato. Quest’ultimo punto è la trappola, la croce (intesa proprio come tratto grafico) e la delizia del progetto Blanck Mass, sia nei suoi atterraggi che nelle cavalcate: un fiuto melodico in definitiva riconoscibile nell’estremismo dei suoi ganci eppure (o proprio per questo) sempre centrato. Per dire, nei pezzi di “Animated Violence Mild” uno rischia di sentirci i Roxette almeno quanto i Dimmu Borgir. Insomma, il sangue come immaginario e il pop dei primi ’90 come approdo concreto, oltre a staffilate di elettronica sbattute sugli incisivi.
Via via, gli album di Blanck Mass (“Dumb Flesh”, “World Eater”) si sono posizionati in un crescendo di enfasi industriale e quest’ignoranza un po’ dolce ne è diventata la ragione sociale. Forse proprio “Animated Violence Mild” è stato l’apice in questo senso e per il 2019 direi che quello è l’album che pubblicamente “ho manifestato” di meno e che in privato ho ciucciato di più. Uno di quei dischi che analizzati in maniera un po’ artica avrebbero i connotati per essere anche lasciati lì dove sono ma che invece, per una meravigliosa intersezione di piani emotivi capita che s’infilino nei contatori, nelle playlist, nelle canotte sudate.
“In Ferneaux”, con la sua struttura rigida fatta di movimenti e di field recordings si allontana in maniera abbastanza drastica da tutto il discorso sopra. Un po’ perché qui non c’è quella stratificazione accatastata di suoni che fa sembrare ogni traccia di Blanck Mass la vostra macchina dopo l’Ikea. Un po’ perché si sceglie di non pigiare quasi mai sull’acceleratore ma di adagiarsi sul piano dell’etereo e dell’ambientale. Ecco, in realtà questo discorso va in continuità con il lavoro che Power aveva fatto uscire l’anno scorso, vale a dire la colonna sonora del film “Calm With Horses”. Anche lì, il lato narrativo, morbido e sempre densissimo di pathos aveva soppiantato quello più aggressivo. Ma in quel caso funzionava benissimo anche perché il senso dell’operazione era chiaro e il rilievo dei movimenti era nitido. Se “In Ferneaux” ha voluto farlo così, sicuramente è perché nella sua testa ha avuto un senso ma se non fosse per le spiegazioni a latere (tipo questa intervista su Stereogum), il materiale sonoro da solo non sarebbe riuscito a comunicarlo, quel senso.
La storia è comunque questa: John Power è bloccato in solitudine in pieno lockdown (ci arriva peraltro con una perdita) e riprende in mano un’infinità di registrazioni ambientali, voci, rumori e prova a farci un collage che ha a che fare col dolore e il modo che uno deve inventarsi per maneggiarlo. Non so abbia le carte per essere annoverato nel genere che Farabegoli definisce covidcore. Di certo ha questa connotazione di musica cruda, spogliata, individuale, con le crocs ai piedi che poi si autoqualifica (e si autodenuncia) come una roba che in tempi meno scombinati non avrebbe avuto ragione di esserci o quantomeno sarebbe stata elaborata diversamente.
A volte ho pensato una cosa che credo un po’ impopolare, ossia che il mood anni ’90 che pervade la musica di Blanck Mass non sia anni luce lontano da certi passaggi di Burial o di altri che hanno un approccio all’elettronica decisamente meno tamarroide. Anzi, penso che si tratti in buona parte di decidere cosa fa da sfondo e cosa sta in evidenza. Alcuni mettono in primo piano i vuoti, i passi nella pioggia, gli echi e poi infilano una specie di sample ultra pop del ’92 dietro a una coltre di nebbia. Poi c’è chi fa grossomodo l’opposto, per dirla semplificando. In questo nuovo album, Blanck Mass inverte (rispetto alla sua prassi) gli ingredienti, si mette alla prova ma fa una cosa che non sembra esattamente la sua. Belli, molto belli, a dire il vero sono l’intro arpeggiato della prima fase e il finale pianistico della seconda. Comunque, tutto questo discorso per dire poi che Blanck Mass è il più grande di tutti quando ci obbliga a tagliare l’aria con le mani, eh.
60/100
(Marco Bachini)
(Immagine in evidenza dalla pagina bandcamp di Blanck Mass)