Share This Article
“Tu lo sai perché sapevo che ti chiamano Doc? Tu hai capito, vero, che voglio dire? Sai, mi viene in mente quando ero ancora bambino. Mia nonna e io riuscivamo a fare delle lunghe conversazioni e senza mai aver bisogno di aprire la bocca. Diceva che era lo “shining”, la “luccicanza”. E per molto tempo io credevo che eravamo solo noi due ad averla, la luccicanza. Proprio come tu credi di averla tu e basta. Ma ce l’hanno anche tanti altri, invece, solamente che forse non lo sanno, oppure non ci credono”. Così Dick Halloran, l’anziano chef dell’Overlook Hotel, spiega al piccolo Danny il significato di luccicanza in “Shining” di Stanley Kubrick, infedele adattamento del romanzo di Stephen King. Poco dopo, proseguendo nel dialogo, rincara la dose: “Vedi, certe cose che succedono lasciano tante tracce di quello che è accaduto. Ma sono tracce che non tutti possono vedere, ma solamente quelle persone che hanno la luccicanza, solo loro”. Si riparta da qui, da quel “certe cose che succedono lasciano tante tracce di quello che è accaduto”, e si prenda l’immagine di copertina del terzo album dei liguri Il Rumore del Bianco: un bambino su un triciclo, novello Danny, viene fermato da due gemelle che invece di chiedergli di giocare con loro gli puntano contro a mo’ di minaccia, dei termoscanner. L’immaginario cinematografico, reso plateale anche nella scelta del titolo (dopotutto Marco Romagna, uno dei tre artefici, è un critico cinematografico), si trova costretto suo malgrado a meticciarsi con l’oggi, con quella contemporaneità fatta di controlli, di ingressi contingentati, di spazi chiusi, inavvicinabili. Porte impossibili da aprire che nulla hanno da invidiare alla celeberrima stanza 237. Il blu che domina la copertina non sembra né un colore “caldo”, come direbbe Julie Maroh, né possiede alcunché di “oscillante”, come affermavano un ventennio fa i Rosa Alchemica. È il colore del pre-morte, o forse dell’aurora ancora non completamente schiarita: due stelle polari che in qualche modo risultano amplificate dall’ascolto dell’album. La chitarra cristallina, riverberata ma pienamente pulita di “Estate” apre il disco preconizzando lo schiudersi di nuove vite, ma si tratta in ogni caso di un loop, di una reiterazione sonora che si rinnova solo in piccole aggiunte, senza uscire dai binari in cui si è incardinata. Sono trascorsi solo sette anni dall’esordio omonimo “Il Rumore del Bianco”, pubblicato nel 2013, ma sembrano essersi avvicendati interi eoni: la pastura elettronica de “Le discutibili abitudini alimentari di G.M”, prima traccia di quel lavoro che serviva ad attirare il pesce/pubblico verso la rete, non è più indispensabile. Si può essere radicali, si può tornare alla radice. Non un processo di semplificazione, ma la necessità di non mascherarsi, di non celare il volto dietro sovrastrutture troppo evidenti. Questo equivale forse a rinunciare a sé? No, come si vedrà tra poco.
Il Rumore del Bianco, terzetto composto da Andreas Amaro (alla chitarra e ai sintetizzatori), Francesco Torre (al basso e ai sintetizzatori), e Marco Romagna (alla batteria elettronica e ai sintetizzatori) dichiarano apertamente la loro appartenenza a quell’universo già disgregato prima dell’aggregazione che risponde idealmente al nome di post-rock. Nel 2020, nel pieno di una pandemia globale e in un processo storico-culturale che sta di fatto mutando le strutture portanti del “pop”, nella sua accezione più allargata, il rock è inevitabilmente post, un suffisso non declinabile, la memoria nei fatti superata di qualcosa che si percepiva vivo e pulsante. Quel rock che veniva superato di slancio, almeno nelle intenzioni, negli anni Novanta (inutile star qui a sciorinare nomi, ma nell’ascolto di “Luccicanza” molte schegge sonore risuoneranno come figlie di un’attitudine che fu fervida rivelazione/rivoluzione), è oggi classicamente defunto, detronizzato, decapitato. Il Rumore del Bianco rivendica quell’esistenza, lo fa nel cuore della notte che alberga in ogni brano e lo fa per puntare all’alba, alla rinascita della luce che forse apparirà – ma già in “Estate” il brano declina verso la sparizione fantasmatica. La possenza dell’attacco di “Rainbow Track” è rinfrancante, anche se ci si accorge ben presto di partecipare a una festa di defunti post-punk new-wave che sono sopravvissuti alla decade del buio anti-plastificazione. Due decenni, gli anni Ottanta e Novanta, che sono la ruota portante dell’intero discorso musicale della band, ma rappresentano anche l’inevitabilità del rock come risurrezione ectoplasmatica: come gli spiriti che aleggiano nell’Overlook Hotel anche i tre giovani liguri si aggirano nelle stanze a riprendere in mano una vita che fu, e non è. Un processo di negazione dell’oggi che Il Rumore del Bianco affronta con un’ottima tessitura musicale, e una grande consapevolezza nel proprio agire: “Videogame” sembra un’outtake smithiana dell’epoca pre-“Disintegration”, ma “À propos d’Erik” spinge la sintetizzazione in un dialogo aperto – e arioso – con Erik Satie. Il suono è una domanda, più che un’affermazione, una ricerca di spazio in un mondo in cui questo spazio è ridotto a essere esclusivamente virtuale, e non più reale. La verità de Il Rumore del Bianco è una verità armonizzata, in cui l’arpeggio si incontra con il tappeto sonoro, la batteria elettronica scandisce più che battere (non sempre, comunque), e la parola è un orpello quasi evitabile: se qua e là vi si ricorre, come nella dichiaratamente ottusa “Dull Boy” (all work and no play make Jack a dull boy, ricorda qualcosa?), è perché come strumento a sua volta può essere utilizzato in modo programmatico.
Chiusi nel loro Overlook musicale, in uno spazio liminare che sta divenendo sempre più asfittico anche per il mondo dell’indipendenza – e su questa deriva generale sarebbe necessario, prima ancora che interessante, interrogarsi –, i tre musicisti dimostrano di non temere il tempo. E non solo il tempo che scandisce le sorti delle umane genti, come già scritto dianzi. No. Anche il tempo musicale, che viene smosso in suite mai banali, in movimenti cinematici, quasi che il senso intimo del suono fosse quello di creare un’immagine, di rafforzarle e poi provare perfino a smentirla per creare un movimento identico e opposto a sé. Al di là dei rimandi interni o delle filiazioni c’è un desiderio spasmodico di suono, in “Luccicanza”, la voglia di salvare attraverso la registrazione di un riverbero un intero mondo, le sue geometrie. Un’utopia, come quella di preservare il cinema dallo spezzetamento dell’oggi, dal suo ridimensionamento. Ci si deve lasciar attraversare da “Luccicanza”, per riscoprire la voce interiore che mette in allarme, preconizza, ricorda il passato/futuro e infine, grazie alla sua essenza, salva. Siamo tutti, nella bolgia del mondo ammalato, Danny a cavallo di un triciclo. “Luccicanza” ci fa attraversare gli enormi corridoi dell’Overlook Hotel senza più paura, che la notte è (in)finita.
75/100
(Raffaele Meale)