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Il 21 febbraio del 1940 a Troy, in quell’Alabama così fiero delle sue divisioni razziali, nasce John Lewis. Cresciuto in una famiglia di contadini e affascinato dalla tradizione dei pastori battisti, grazie alla sua curiosità e voglia di studiare riesce a essere ammesso all’American Baptist Theological Seminary a Nashville, in Tennessee, dopo essere stato rifiutato per via della segregazione razziale dal Troy College. Corona così il suo sogno di diventare ministro del culto, per poi laurearsi in filosofia e religione alla Fisk University.
Proprio negli anni di studio entra in contatto con i movimenti studenteschi, prima con il Nashville Student Movement, con cui organizza boicottaggi e azioni non violente per combattere contro il segregazionismo, poi con i Freedom Riders e infine sempre più su, a livello nazionale, entra far parte dello Student Nonviolent Coordinating Committee, di cui diventa presidente e incide il proprio nome nei libri di storia americana diventando uno dei Big Six, sei personalità a capo di altrettanti movimenti per i diritti civili, di cui Martin Luther King Jr. era sicuramente l’esponente più importante e conosciuto. Una vicenda, quella di Lewis, che trova in quel momento un punto nevralgico, sia di chiusura che di inizio, affiancandosi a quel reverendo King che era stato fonte di ispirazione per tutta la sua vita.
Dalla marcia su Washington del 28 agosto 1963, in cui i Big Six parlarono a una folla di più di 250mila persone, fino alle ancor più famose marce di Selma del 1965, tra cui quella del 7 marzo, tristemente conosciuta come Domenica di Sangue per le repressioni della polizia (e portate sul grande schermo nel film di Ava DuVernay), John Lewis divenne una figura cardine del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Un impegno che ha portato poi avanti nelle vesti di membro del Congresso statunitense, dalla prima elezione nel 1986 ininterrottamente fino a quella del 2018, rimanendo in carica fino alla sua scomparsa, avvenuta il 17 luglio 2020. Una carriera politica che non gli ha impedito di continuare a organizzare proteste e sit-in per cause a lui care, dalle manifestazioni contro la guerra in Iraq a quelle per la limitazione dell’uso delle armi da fuoco. Nel 2011 il presidente Barack Obama, primo presidente nero della storia, gli ha conferito Medaglia presidenziale della libertà, una delle più prestigiose onorificenze degli Stati Uniti d’America: un altro cerchio chiuso per Lewis, che vede il frutto delle sue battaglie incarnarsi nella presidenza americana.
Questa storia, questa incredibile biografia che raccoglie in sé alcune delle grandi battaglie del secolo scorso, è stata raccontata in una graphic novel dal titolo March, scritta a quattro mani dallo stesso Lewis e da Andrew Aydin, suo consulente politico, e narrata attraverso le immagini di Nate Powell. Fumetto pluripremiato negli Stati Uniti (2017 Printz Award for excellence in young-adult literature, the Coretta Scott King Award, the YALSA Award for Excellence in Nonfiction, solo per citarne alcuni) e primo in assoluto a vincere il prestigiosissimo National Book Award in Young People’s Literature, nel nostro paese l’edizione Mondadori Ink è stata poco considerata e purtroppo poco pubblicizzata. Per rimediare a una mancanza anche nostra, ci sembra giusto iniziare Black Comics Matter, una serie di recensioni e approfondimenti dedicati a fumetti di autori di colore (o che parlano di temi legati alla storia nera, sia statunitense che non) proprio da John Lewis, proprio in occasione della settimana del suo compleanno e proprio in occasione della conclusione del Black History Month, che ogni febbraio celebra la storia dei neri americani.
John Lewis: una vita in marcia
Oltre a tutto quello che abbiamo detto finora, John Lewis ha anche segnato un primato, ovvero quello di essere il primo rappresentante del congresso a scrivere una autobiografia a fumetti. E la cosa non è una casualità, ma anzi sigilla, in maniera quasi commovente, la chiusura di un lungo ciclo di battaglie, di sofferenze e di impegno: è proprio un fumetto, infatti, ad aver inspirato il futuro presidente dell’SNCC e congressman, una breve storia di 16 pagine dedicata alle figure di Rosa Parks e soprattutto al reverendo Martin Luther King Jr., prima ispirazione del piccolo Lewis che ne ascoltava i discorsi alla radio.
È Lewis il primo a sapere quanto il fumetto sia uno strumento potente e diretto, capace di colpire diverse classi sociali ma soprattutto i più giovani. Lo stesso vale per Aydin, che proprio sul fumetto dedicato a Luther King ha scritto un saggio, The Comic Book that Changed the World.
Nelle 544 pagine di March, i due ripercorrono la biografia di Lewis cercando di bilanciare il più possibile la parte storica a quella più emotiva e personale, per raccontare l’uomo prima ancora che l’attivista. La struttura che Lewis e Aydin scelgono va proprio in questa direzione, con una narrazione lineare, quanto più chiara e scorrevole possibile, che si lascia andare a pochi salti temporali, soprattutto in un presente fortemente simbolico, quello del giuramento di Barack Obama come Presidente degli Stati Uniti, per poi lasciare spazio al passato del congressman. Nonostante la linearità, la scelta di creare un crescendo continuo di eventi, dosando bene il ritmo narrativo per raccontare le sconfitte prima di costruire la strada per le vittorie, crea un coinvolgimento emotivo molto forte: tutto il racconto è pervaso da un fascino unico, da quella capacità tutta statunitense di creare un’epica del self made man, della possibilità di raggiungere i propri sogni attraverso lavoro e sacrificio. Ma è un sogno americano molto particolare, quello di Lewis, che combatte contro la società di privilegio che gli Stati Uniti “bianchi” hanno costruito e mantenuto per quasi due secoli: elemento che aggiunge ulteriore potenza al racconto.
Se la prima parte del fumetto, grossomodo tutto il primo libro, lascia molto spazio al racconto umano – a partire dall’infanzia nella campagna dell’Alabama, al senso di etica e giustizia sviluppatosi precocemente nel giovane John, la voglia di studiare e di conoscere, fino all’approdo nella città di Nashville e all’inizio del suo attivismo – col procedere della storia la figura umana e politica di Lewis si confondono sempre di più e sempre più spazio viene dato a eventi e date, a luoghi e persone che hanno fatto grande il movimento dei diritti civili, a organizzazioni e sigle che hanno lavorato alacremente per l’uguaglianza di neri e bianchi. Tutto questo, specie nella parte centrale dell’opera, potrebbe fiaccare la lettura e rischiare di farla impantanare: la ricchezza di informazioni dà la giusta complessità e risalto a ogni aspetto di questa storia (un grande plauso va fatto all’adattamento, che con note brevi e mirate cerca sempre di contestualizzare per il lettore italiano), ma il rischio di sovraccarico porta spesso didascalismi, necessari a volte, ma che rallentano l’incedere della narrazione.
A fare da argine a ciò, però, ci sono il punto di vista chiaro e genuino, la voce forte e ferma di John Lewis: dai sit-in alle marce, dai pestaggi al carcere, in un crescendo di coinvolgimento emotivo e di tensione, fino alla vittoria con l’approvazione del Voting Rights Act del 1965 (legge che garantiva il diritto di voto a tutte le minoranze razziali negli Stati Uniti, n.d.r.), tutto ciò che lo riguarda in maniera diretta è avvincente nella sua totale onestà. Siamo lontani dal romanzamento eccessivo e da un certo patetismo del film Selma di DuVernay; anche i momenti più retorici rientrano in una epopea che diventa epica civile, senza che però Lewis venga mai dipinto come un eroe, bensì solo come un uomo che lotta per la giustizia e per i diritti di quelli che considera suoi fratelli, senza cedere a compromessi. Vari momenti mostrano i dubbi e le fragilità dell’essere umano, in particolare nella parte iniziale e in alcuni momenti particolarmente drammatici (l’attentato alla chiesa battista di Birmingham o il terribile omicidio di tre attivisti ) ma anche e soprattutto la forza di una volontà instancabile: tutto questo viene sapientemente rielaborato da Aydin, che raccoglie con rispetto le parole di Lewis per trasformarle in una storia che entra sottopelle, trascrivendo spesso i discorsi pubblici dell’attivista, che non hanno bisogno di alcun cambiamento per colpire in profondità.
Infine, la precisa volontà dei due autori di rappresentare con grande dovizia di particolari non solo gli eventi, ma anche il contesto sociale degli Stati del Sud e degli USA dell’epoca, ha un intento pedagogico e storico ben definito: entrambi sono consci del fatto che molto di ciò che mostrano (le dichiarazioni politiche di esponenti repubblicani e la brutalità della polizia, il sospetto dei bianchi nei confronti dei neri e i raid del Ku Klux Klan) rappresenta un male ben lungi dall’essere sradicato, e quindi storie come queste sono un monito necessario e impellente.
Nate Powell: il potere del bianco e nero
Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora potrebbe benissimo essere stato scritto in una biografia letteraria, ma non avrebbe avuto la stessa anima, la stessa dirompente potenza. La vera scintilla, ciò che eleva un racconto del genere a opera di grande livello, è tutto nelle mani di chi conosce e sa realizzare un fumetto. In questo caso, in quelle sapienti e pienamente mature di Nate Powell. Powell non è mai stato un nome di primo piano a livello internazionale: qui in Italia è stato pubblicato da varie case editrici (Portami Via per Rizzoli Lizard, Imperi per Panini Comics, Condizioni per Edizioni BD e prossimamente Torna per Bao Publishing), ma non ha mai trovato critiche entusiaste, nonostante la vittoria di un Eisner e un Ignatz Award. Forse uno stile ritenuto un po’ acerbo e discontinuo, a metà tra fumetto indipendente nordamericano (Scott McCloud e Chester Brown, tra gli altri) e quello mainstream (Powell stesso si definisce un Marvel Boy in un’intervista all’Arkansas Review).
Con March, a detta di Powell stesso un’”esperienza che mi ha cambiato la vita”, l’artista dimostra però un salto di qualità e una piena maturazione delle sue capacità. Il tratto più chiaro e pulito già visto in Imperi si perfeziona in questo lavoro, arricchendosi di piccole sfumature e di una precisione ancora maggiore che gli permette di definire i molti dettagli della storia, quelli studiati attraverso fonti d’epoca e che calano il lettore negli Stati Uniti degli anni ’50-’60: pur essendo lui stesso ad ammettere che in giro ci sono altri migliori nel disegno realistico e dettagliato, l’impegno profuso nello studio e approfondimento trasudano da ogni pagina. Anche i volti di ogni protagonista non sono ricalcati da foto, ma sono reinterpretati secondo lo stile dell’autore, senza tradire nessuna delle loro caratteristiche e la loro espressività, ma anzi distillandole ed esaltandole.
Powell non rinuncia a far penetrare un po’ del suo gusto smaccatamente cartoonesco in un racconto così intenso: poliziotti e esponenti politici bianchi vengono talvolta tratteggiati con espressioni sbigottite o adirate più simili a un cartoon della Acme che non a un racconto giornalistico, con il chiaro intento di sbeffeggiare la loro violenza o il loro razzismo con un piccolo tocco satirico. Al tempo stesso, i momenti più drammatici sono trattati con discrezione, eleganza e tatto. In particolare John Lewis è tratteggiato come un giovane determinato, dallo sguardo penetrante e dal grande carisma: ogni parola, ogni gesto sono ingigantiti e rafforzati dall’intensità del tratto e dalla sensibilità di Powell. Une esempio si può vedere nel discorso pronunciato durante la marcia di Washington, meno famoso del celebre “I have a dream” di Martin Luther King ma altrettanto potente, che viene costruito proprio per esaltare non solo le parole (con grane cura del lettering e della dimensione dei baloon, che sembrano invadere la piazza) ma anche e soprattutto la fermezza di un ragazzo poco più che ventenne eppure già così deciso, mostrandolo in tutta la sua dedizione (con un impatto addirittura maggiore rispetto alle immagini d’epoca).
Oltre al tratto, la gestione dei bianchi e dei neri (qui arricchiti dalle sfumature di grigio, utili sia a rappresentare la carnagione dei protagonisti, ma anche per creare transizioni tra i due estremi) subisce un’evoluzione che sembra risentire dei grandi maestri del fumetto nordamericano, Alex Toth in testa. Oscurità e luce sono elementi fondamentali del racconto, usati in maniera tanto semplice quanto d’impatto: come il bianco fa risplendere i momenti di vittoria (ad esempio la marcia di Washington o quella finale di Selma, così come il giuramento di Obama o il toccante abbraccio tra lui e Lewis), le ombre racchiudono i momenti di sconforto, dagli attentati agli omicidi fino alle incarcerazioni. A titolo di esempio si può leggere l’inizio del libro tre, con la concitazione del fumo nero che avvolge la chiesa battista di Birmingham, dalle cui macerie escono i resti di una piccola bambina, oppure l’oscurità che avvolge prima John, poi Bob Moses alla notizia della morte dei tre attivisti del Mississipi Freedom Democratic Party.
Ben più interessante è quando i due colori servono per esaltare i sentimenti opposti: il bianco totale che circonda Lewis nel momento in cui parte per il viaggio in Africa, il nero totale in cui risplendono solo le parole e la figura di Luther King durante il discorso di Washington, o quelle dello studio televisivo in cui Fannie Lou Hammer testimonia gli abusi subiti in tutta la vita, uno dei momenti più intensi (per costruzione e narrazione) di tutto il volume. Scelte, alcuni apparentemente banali, altre meno, che sono sapientemente cadenzate nel racconto per sottolineare momenti di gioia e di dolore che provochino coinvolgimento emotivo ed empatico, esaltando la potenza narrativa.
Oltre allo stile, il vero punto di forza di Powell è lo storytelling: pur dovendo dedicare alcuni momenti a delle illustrazioni a tutta pagina per presentare alcuni personaggi chiave, ritornando un po’ in quel didascalismo che in alcuni passaggi azzoppa la graphic novel, le doti registiche di Powell sono indiscusse e trovano in questo fumetto la migliore espressione. Pagine dalle più variegate suddivisioni si susseguono in un flusso naturale e travolgente, ogni soluzione è pensata per ottenere il maggior impatto possibile, ogni inquadratura studiata per accompagnare il tono della scena. I cambi di scena, i passaggi da campi larghi a campi stretti, le sovrapposizioni di vignette servono a velocizzare il ritmo, ad esempio negli scontri di piazza (basti vedere la devastante e drammatica aggressione a Jimmie Lee Jackson), mentre le splash e doppie splash page, oltre a dare ariosità, esaltano i momenti di gioia, di esaltazione e vittoria. Tutto questo si sublima nel finale, con la prima marcia di Selma, conclusasi in tragedia e dove addirittura il bianco viene corrotto dai fumogeni della polizia, e quello successiva del 21 marzo, che sancisce la vera fine della lotta per il diritto al voto, in cui le linee si fanno più sinuose, il sole splende e le parole non servono più.
Infine proprio sulle parole e la loro rappresentazione è necessario fermarsi. Non si tende a sottolineare troppo il lavoro di lettering nel fumetto, della creazione della parola come elemento grafico integrante del fumetto. March è anche una occasione per ribadire questa componente fondamentale per il medium: Nate Powell costruisce balloon e struttura i testi per seguire al meglio la propria narrazione e li sfrutta per sottolineare concetti e momenti chiave. Ecco, ad esempio, che nella parola “divisi” gli spazi tra le lettere si allargano per far percepire visivamente il suo senso, oppure quando si racconta delle speranze che scivolano via, un paragrafo si scompone su più righe distanziate, o ancora quando linee telefonica si aggrovigliano attorno ai baloon dei personaggi per rappresentare il controllo da parte dello stato e dei servizi segreti. Il lettering (un plauso anche al lavoro di Studio RAM per l’edizione italiana) interviene nei momenti di tragedia, poche flebili righe bianche che si stagliano su un nero assoluto, ma anche nei momenti più concitati, quelli in cui serve più coraggio e forza: i testi delle canzoni gospel, degli spiritual e dei discorsi ai comizi invadono le pagine, volano nell’aria, avvolgono i personaggi e trascinano le folle: ecco dove il fumetto sfrutta ogni suo elemento per ispirare e travolgere il lettore. E questo è quello che fa l’arte di Nate Powell in questo volume: prendere l’ispirazione di Lewis e raccontarla al massimo della potenza che un fumetto possa offrire, quella forza che non si può riprodurre nè in un libro, nè in un film.
March: la lunga marcia dei diritti arriva fino a oggi
Un lavoro imponente come March, semplice all’apparenza ma denso di significati e di informazioni, non può essere affrontato da una sola prospettiva, perché ne riflette tante: quella storica, quella squisitamente tecnica, quella letteraria, quella politica. Un aggettivo però ben si adatta a un’opera come questa: necessario. Il motivo lo spiega bene lo stesso Andrew Aydin in una intervista rilasciata nel 2017 all’Arkansas Times: “Quando il primo volume è uscito, la Corte Suprema aveva eliminato una sezione del Voting Rights Act. Quando è uscito il secondo volume, sono accadti i fatti di Ferguson (quando il 18enne afroamericano Micahel Brown venne ucciso dal poliziotto Darren Wilson, NdR). Quando il terzo volume è uscito, Donald Trump era al potere. Per questo ritengo questo libro necessario.”
Qualche magazine e quotidiano (tra cui il Washington Post) ha paragonato questo volume a Maus: pur non arrivando a certe vette, dal punto di vista allegorico e artistico, nonché per la portata storica e per il ruolo nel mondo del fumetto, March è senza dubbio una di quelle letture da consigliare a tutti, ad adulti e soprattutto ragazzi, da far leggere nelle scuole, perché ogni pagina è una fonte di ispirazione, un invito alla lotta, quella non violenta fatta di cultura e volontà di apprendere, di approfondire, di studiare senza sosta per un’umanità migliore. E anche per far capire una volta di più di cosa il fumetto possa essere capace, quali corde profonde riesca a toccare.
Un libro più che mai attuale, sia guardando a quello che è successo anche solo nell’ultimo anno negli States, ma in generale in tutto il mondo. Un mondo che sembra sempre sul punto di tornare indietro, dove il diverso è sempre perseguitato, in un occidente dove l’uomo bianco (inteso nelle accezioni di etero e bianco) sta lottando in maniera sempre più sporca e disperata per mantenere privilegi secolari e anacronistici, March è un’arma affilata per conoscere il passato e per costruire il futuro. Seguendo l’esempio di John Lewis e di tanti altri come lui, in tutto il mondo: basta aprire una porta, o girare una pagina, e cominciare a marciare.
Abbiamo parlato di:
March – La trilogia
John Lewis, Andrew Aydin, Nate Powell, con prefazione di Francesco Costa
Traduzione di Giovanni Zucca
Oscar Ink, 2018
535 pagine, cartonato, a colori – 35,00 €
ISBN: 9788804702320
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