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Il 26 febbraio è uscito un nuovo box set di Bob Dylan, il triplo 1970, che raccoglie sessioni registrate in quell’anno. Che cosa rappresenta questa fase di carriera nella poetica del cantautore? Bob Dylan entra negli Anni Settanta rigenerato e in salute dopo aver rivoluzionato il mondo della musica nel decennio appena conclusosi. In realtà Dylan l’avrebbe rivoluzionato altre volte, anche in anni molto recenti, mantenendo intatto il suo status di bardo, di profeta, di rocker lisergico e di folk-singer geniale, e la sua centralità nel campo musicale e in quello letterario è indiscussa. Se attualmente è uno splendido e indecifrabile enigma, si può certo dire che lo sia sempre stato.
Il Dylan che si apre ai ‘70s è un Dylan poco conosciuto dalla massa. A metà strada tra i febbrili e vorticosi eccessi dei Mid-Sixties e la trionfale tournée di ritorno con The Band, successiva a Planet Waves, del 1974, ancora (piuttosto) lontano dalla accorata e graffiante poesia di Blood on the Tracks e dalle scorribande gitane del frizzante biennio Rolling Thunder Revue (1975-76), il Dylan che chiude gli Anni Sessanta è un uomo che tiene alla sua privacy e che si dedica anima e corpo alla propria famiglia rinunciando persino a prendere parte al Woodstock Festival. Non organizza tournée intensive dal 1966, prima dell’incidente in moto, e centellina in maniera oculata le sue apparizioni pubbliche.
Nel ’69 crea uno splendido esperimento di folk-country con Nashville Skyline. Il disco contiene “Lay Lady Lay” e un duetto con Johnny Cash in una revisione di “Girl from the North Country”. Dylan si esibisce al Johnny Cash Show e molte registrazioni provenienti dalle sessioni dei due sono state pubblicate sul Bootleg Series 15 e sulla Copyright Collection 1969, entrambi usciti nel 2019. Sempre nel ’69, Dylan si esibisce all’Isle of Wight al fianco di The Band in un concerto – pubblicato integralmente sul Bootleg Series 10 (2013) – la cui rilevanza storica ha fatto quasi passare in secondo piano la qualità eccezionale della vigorosa performance. Nel giugno 1970 esce Self Portrait, un doppio da tanti non apprezzato, attraversato da cover, traditional e brani originali piuttosto ispirati ma non sempre altrettanto ben prodotti. Nell’ottobre dello stesso anno viene pubblicato New Morning, dodici nuovi pezzi in cui Dylan sembra riprendere il suo percorso cantautorale in un’evoluzione artistica che era iniziata sin dai tempi di The Freewheelin’ Bob Dylan, registrato tra il ’62 e il ’63, e non si era ancora fermata.
Apicali nel Dylan post ’66 sono, però, due momenti su tutti. Il primo è la rivoluzione in sordina dei “nastri della cantina”, i “Basement Tapes”. Tra il giugno e il settembre del ’67, a Woodstock insieme a The Band, Bob Dylan gioca a smontare e a rimontare la forma-canzone nello scantinato della loro casa, la “Big Pink”. Crea brani dal nulla e li riporta nel nulla (su tutti “I’m Not There”). Pesca, dalla propria memoria, melodie lontanissime intrappolate in qualche rete del tempo. Vota sé stesso al traditional, al mistero nebbioso che solo il folk più ancestrale è in grado costruire. Eleva le nursery rhymes e il non-sense a modus operandi – si pensi a “Yea! Heavy and a Bottle of Bread” – e costruisce attraverso quelle canzoni una vera e propria nazione, quella che il geniale Greil Marcus avrebbe definito “repubblica invisibile”, [1] percorsa da comparse improvvise e altrettanto immediate scomparse, da brevi rivelazioni che mai del tutto si svelano e mantengono sempre un qualcosa di spettrale, che daranno vita al primo bootleg di sempre, il mitologico Great White Wonder. Inseguito anche lì da fanatici stalker (si cerchi la voce A.J. Weberman) dai quali provava a liberarsi da anni, impose a sé stesso un nuovo regime di lavoro e di vita dopo la caduta in moto e gli eccessi.
Il secondo momento, altrettanto cruciale, è la pubblicazione di John Wesley Harding (1967), permeato di inquiete parabole e di simbologie bibliche. È poesia secca, a tratti persino ruvida nella sua triste e caduca bellezza, che quasi non lascia spazio all’immaginazione pur essendo ermetica e asciutta. Ogni canzone dice tutto quello che serve pur lasciando taciute – o suggerendo appena – altre migliaia di fatti. Pare che Dylan, mentre componeva i dodici brani poi finiti sul disco, tenesse una Bibbia dalla rilegatura particolarmente preziosa sempre aperta su un leggio nel salotto. Infilata una serie di album semplicemente perfetti nei Mid-Sixties, la situazione non sembrava essere affatto cambiata: i lavori successivi all’incidente in moto erano risultati altrettanto maestosi e cruciali. Il 1970 è un anno decisivo per capire quale direzione prenderà Dylan nei mesi successivi. Episodi per certi versi di contorno, come l’incontro, che ci narra nella sua autobiografia Chronicles Vol. 1, [2] con il regista teatrale Archibald MacLeish con l’idea di musicare il suo Scratch, ancora in fase di composizione, ci indicano attraverso quali strade originali e ambiziose, talvolta alla cieca, Dylan si stesse muovendo. Più che confusione è la mente in fermento di un uomo che sta per cambiare nuovamente tracciato. La collaborazione tra i due non si concretizzerà, ma le pagine che Dylan ci regala al riguardo sono indimenticabili. Pare che uno o più brani pensati per il progetto siano poi finiti su New Morning, probabilmente “Father of the Night” o “Time Passes Slowly”. [3]
Le registrazioni di archivio più significative del periodo 1967-70 sono suddivise tra Bootleg Series 10 (2013), con brani tratti dalle sessioni di Self Portrait, Nashville Skyline e New Morning, Bootleg Series 11 (2014), comprendente tutti i “Basement Tapes” con The Band, e Bootleg Series 15 (2019), contenente le Dylan-Cash Sessions, brani dalle sessioni di John Wesley Harding, Nashville Skyline e Self Portrait e le sessions con Earl Scruggs. La Copyright Collection, di cui questo triplo è un nuovo capitolo, è nata nel 2012 ed è composta da una serie di uscite d’archivio parallele ai Bootleg Series ma con finalità differenti: centrali sono sia l’intento di ampliare ulteriormente le collezioni dei fan e dei dylanologi (molto spesso le due categorie si sovrappongono) sia il necessario bisogno per la Sony di evitare che i suddetti brani, quasi tutti circolanti su bootleg da decenni, finiscano nel pubblico dominio in Europa a cinquant’anni di distanza dalla loro incisione.
Se finora quasi tutte le pubblicazioni delle serie – a eccezione di quelle del 2015 e del 2016, rese disponibili su scala globale tra Bootleg Series 12 (2015) e The 1966 Live Recordings (2016), contenenti tutte le registrazioni studio e live esistenti di uno dei periodi più importanti della storia della musica contemporanea, il biennio dylaniano ’65-‘66 – sono uscite in tiratura limitatissima e unicamente nel mercato europeo, questa volta la Columbia, dopo aver distribuito in maniera ristretta il triplo disco a fine 2020, ha deciso di renderlo disponibile a tutti. 1970 si concentra sulle sessioni di Self Portrait e New Morning e contiene le registrazioni con George Harrison del 1º maggio 1970, quando i due amici, rilassati e di buon umore, si concessero una serie di take con reinvenzioni di brani originali di Dylan, tra cui “Mama, You Been on My Mind” e “Gates of Eden”, e una serie di intriganti cover, come “Matchbox” di Carl Perkins e una avventurosa interpretazione di “Yesterday” da parte di Dylan.
Il box triplo scorre con vibrante energia e regala numerosi momenti divertenti e brillanti. Racconta di una rivoluzione silenziosa di Dylan, spesso snobbata dagli addetti ai lavori, rivalutata già in passato dagli studiosi e solo molto di recente, con l’uscita dei Bootleg Series 10 e 15, dai critici musicali. Non esistono Dylan minori e queste incisioni lo provano. (Per anni molti hanno pensato che fosse minore il Dylan “Born Again Christian” del ’79-’81, ma gli esperti non lo hanno mai creduto, e il Bootleg Series 13 (2017), insieme a tanti bootleg di quel periodo decisamente infuocati, ne è la dimostrazione. Altri ancora ritengono che lo sia il Dylan ’84-’87, ma anche quel Dylan compone gemme assolute, molte delle quali circolano solo in forma pirata, e dissemina il mondo di performance live straordinarie.). 1970 è un tuffo specifico e approfondito, quasi accademico, su come Dylan lavorava in studio in quegli anni, e non tutti possono essere pronti ad accedervi. È un work in progress molto diverso da quello esplosivo delle colate di lava e cemento della voce resinosa e vinilica della trilogia ’65-’66 o da quello delle nebbie oniriche folk degli anni ’62-’64. I take di “Went to See the Gypsy” fissano le regole: Dylan non cerca tanto di vivere la canzone in maniera diversa ogni volta quanto di cogliere in modo sincero e avvincente il momentum.
La sfregìs del Dylan di allora è evidente: pennate chitarristiche più country che folk, una voce nasale ma non così nasale come nei Mid-Sixties o nei pieni Seventies, un sound impastato intorno a lui e un mood per certi versi “rurale”, che rispecchia, forse involontariamente, la sua vita di Woodstock, e che sembra celebrare una paupertas di stampo oraziano. [4] Dylan brinda all’autàrkeia, al sapersi bastare, ma, come il poeta latino, la riempie di riferimenti colti che agli occhi di chi ascolta si aprono lentamente come un labirinto di segni e di immagini. I ritmi sghembi e lutulenti di “Alberta” e di “Little Moses” si conciliano coerentemente con la melanconica “Thirsty Boots” e con la sognante “Sign on the Window”, che a ogni take sembra raccontare una storia diversa. È puro blues incendiario quando inizia “One More Weekend”, scatenata e graziosa, è rivelazione quasi fideistica nella splendida esecuzione di “Long Black Veil” ed è agnizione quando arriva il momento della bistrattata “Lily of the West”, che nella semplice forma che Dylan le dà spicca per la profondità della performance vocale.
Particolarmente care ai fan, e principale motivo di curiosità per gli ascoltatori più occasionali, sono le registrazioni insieme a George Harrison del 1° maggio 1970 accanto a Charlie Daniels al basso e a Russ Kunkel alla batteria. Circolanti su bootleg già da moltissimi anni, sono la fedele testimonianza di due amici sereni che accendono il registratore e non si pongono limiti. Registrano, perlopiù, tentativi, bozze, acquerelli graziosi senza troppe pretese, che anticipano la straordinaria intesa tra i due che sarebbe esplosa in forme più compiute e riuscite in futuro. Dylan, infatti, avrebbe partecipato al Concert for Bangladesh di Harrison solo un anno dopo e i due avrebbero fatto parte del supergruppo Traveling Wilburys a fine Anni Ottanta. Si assapora da subito il feeling che corre tra i due. “One Too Many Mornings” è scoppiettante e intensa e sembra muoversi pian piano nella direzione che avrebbe imboccato nelle performance dal vivo del ’76. Un Dylan impacciato si concede un tuffo in “Yesterday”, che si muove un po’ a inciampi ma che, anche grazie ai cori di Harrison, risulta piacevole. Belle sono anche le rivisitazioni di “Just Like Tom Thumb’s Blues” e “It Ain’t Me, Babe”, edificate sui pregevoli tocchi chitarristici di Harrison e sulla voce vaporosa di Dylan. Ma sono il country-pop più recente, da “If Not for You”, che Harrison avrebbe inciso su All Things Must Pass, a “I Threw It All Away”, e il blues vampiresco di “Matchbox” a brillare maggiormente nei dialoghi musicali e vocali che i due intrattengono. Dopo quella giornata trascorsa con Harrison, Dylan sarebbe tornato a concentrarsi sulla scrittura: “When Harrison left town, Bob turned his mind to new songs”, [5] scrive Howard Sounes nella sua biografia dylaniana Down the Highway.
La vena crooner di Dylan, così viva e potente in Self Portrait, è presente anche in questo box set ed esisteva – ormai lo sappiamo – ben prima della sua recente trilogia dei ‘10s contenente cover di standard tratti dal Great American Songbook. In questi – pur rari – momenti, emerge tutta la passionale vitalità nella quale Dylan s’immerge. “Spanish Is the Loving Tongue” è il culmine di questo approccio: Dylan aveva già registrato la cover più volte, a cominciare dai “nastri della cantina”, e nel 1970 ne ha inciso svariati take. Tutte le versioni del 1970 sono per piano solo. Oltre a quella inserita in questo box, le altre erano state pubblicate come b-side del singolo “Watching the River Flow” (1971) e sul Bootleg Series Vol. 10 (2013). Il pezzo avrebbe fatto ritorno durante le sessioni per Blood on the Tracks (New York 1974) e in un concerto del ’76. È, questo, un Dylan romantico e seducente, che si muove in una dimensione molto vicina – nei temi – a quella esplorata in Nashville Skyline. “Love is all there is, it makes the world go ‘round”, cantava Dylan in quel disco, e molti fan storcevano il naso di fronte a un verso di quel tipo. Il mondo accademico, invece, non si lasciava confondere e iniziava ad accoglierlo tra le sue braccia.
In un caldissimo giorno d’inizio giugno del 1970 Bob Dylan si mise in auto con la moglie Sara e il caro amico David Crosby per raggiungere la University of Princeton e ricevere lì un dottorato ad honorem in musica. Inizialmente Dylan era poco propenso a partecipare all’evento, sensazione che descrive anche nella sua autobiografia, ma fu convinto proprio dall’amico e dalla moglie. Come riporta un blog legato alla University of Princeton, pare che Arthur Mendel, celebre musicologo, fosse in disaccordo con la scelta dell’università. Sosteneva che Dylan avrebbe meritato un premio per la scrittura piuttosto che per la musica, rifacendosi a un’annosa questione di carattere estetico che, in polemica col romanticismo, negava alla musica la possibilità di esprimere alcunché di diverso da sé stessa. [6] Gli accademici – che Dylan tanto aveva preso in giro in “Ballad of a Thin Man” – hanno impiegato parecchio a capire che l’arte di Dylan è parola musicata, è ritmo e interpretazione, è gesto e pronuncia, ma è soprattutto voce, come perfettamente descritto da Alessandro Carrera, docente alla University of Houston, autore del cruciale saggio La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America. Nello stesso saggio, Carrera, evidenziando un elemento particolarmente rilevante nel Dylan di questo periodo, scrive che “una delle mosse più geniali di Dylan dopo il 1966 era consistita nello smettere di fare il poeta che avrebbe voluto diventare, per essere finalmente il poeta che stava diventando”. [7] Dalla fine degli Anni Sessanta, citando sempre Carrera, Dylan scrive “per la prima volta in un inglese che può essere capito anche da chi non è ‘hip’ e non frequenta le coffee-house di New York”. [8] La novità è dirompente.
Mentre Mendel sosteneva che Dylan avrebbe meritato di essere premiato in lettere, non in musica, affermando che “Dylan’s music is simply the vehicle of his words. […] It has been proved over and over again that no music—not Bob Dylan’s, and not Beethoven’s—in itself expresses such concepts”, [9] Robert Francis Goheen, docente di lettere classiche e a quel tempo rettore di Princeton, riteneva che Dylan potesse forse anche essere “a bad or mediocre musician, and his power with words obscures the fact for the multitudes,” ma “he seems to me remarkably expressive in this mode”. [10] Alcuni suoi colleghi si richiamarono a Omero e, in particolare, al fatto che Iliade e Odissea fossero poemi pensati per essere eseguiti in musica e cantati. La stessa idea fu sposata anche dalla segretaria permanente dell’Accademia di Svezia Sara Danius quando, subito dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan nel 2016, venne intervistata dai media. [11]
Dylan avrebbe “festeggiato” – si fa per dire – l’esperienza di Princeton nella sua “Day of the Locusts”, scanzonata e leggera, registrata in agosto e pubblicata poi su New Morning. È il brano che chiude il box set, uno degli ultimi scritti per l’album, e da un punto di vista simbolico sembra ricordarci che Dylan non vuole e non può essere appeso in un museo della musica (o della letteratura). Come avrebbe cantato in “Don’t Fall Apart on Me Tonight” (1983), a stare fermo in un quadro gli pruderebbe il naso e non potrebbe grattarsi. Tutto quello che non desidera è di essere etichettato, analizzato, spiegato. Lo impressiona ben poco la corona d’alloro (“I’ve dined with kings, I’ve been offered wings / but I’ve never been too impressed”, canta in “Is Your Love in Vain”, 1978) e non importa che sia il Nobel o il Pulitzer, la Medal of Freedom o l’Oscar. Nella canzone dà spazio al canto delle cicale proprio davanti al campus. [12] Sono quelle, in ultimo, che sembra voler celebrare, ironizzando sulla cerimonia: “I put down my robe, I picked up my diploma […] Sure was glad to get out of there alive”, conclude. Non c’è altro da aggiungere.
Note e Bibliografia
[1] Cfr. Greil Marcus, Invisible Republic: Bob Dylan’s Basement Tapes, New York, Holt, 1997; ed. riveduta, 2011.
[2] Bob Dylan, Chronicles Vol. 1, ed. originale New York, Simon & Schuster, 2004, trad. it. di Alessandro Carrera, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 98 e sgg.
[3] Cfr. https://richardgilbert.wordpress.com/2011/03/16/bob-dylan-meets-archibald-macleish/.
[4] A tal proposito cfr. Orazio, carmina I, 9; II, 18; III, 16.
[5] Howard Sounes, Down the Highway, New York, Grove Press, 2001; eBook, 2011, p. 565.
[6] In merito alle riflessioni di Mendel cfr. https://blogs.princeton.edu/mudd/2016/12/bob-dylans-honorary-princeton-university-degree/. In merito alla questione estetica chiamata in causa nel testo cfr. Eduard Hanslick, Il Bello musicale, ed. originale Lipsia 1854, trad. it. Milano, Aesthetica, 2007.
[7] Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Milano, Feltrinelli, 2001; ed. ampliata, 2011, p. 93.
[8] Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan, cit., p. 95.
[9] Cfr. di nuovo https://blogs.princeton.edu/mudd/2016/12/bob-dylans-honorary-princeton-university-degree/.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. https://www.nytimes.com/2019/10/17/books/sara-danius-dead.html.
[12] Cfr. Howard Sounes, Down the Highway, cit.; eBook, 2011, pp. 566-67.
(Samuele Conficoni)