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Certe storie sono piccoli sogni: sembra non succedere niente e poi accade tutto all’improvviso. Bill Stone, studente della USM (University of Southern Maine), tra la fine degli anni sessanta è un “trovatore” folk: chitarra in mano e una serie di concerti (pochi) in qualche piccolo locale di Portland come Bard sulla Forest Avenue o l’Old Port Tavern.
Scrive anche qualche canzone e registra su un Panasonic a due tracce, quasi per puro caso, un disco facendosi accompagnare da una band: Arthur Webster al basso, Tom Blackwell alla chitarra, Skip Smith alla batteria e Beth Waterhouse ai cori. L’album, pubblicato nel 1970 in tiratura super limitata da una piccola etichetta del posto (la Omni Recording Company), è una meteora discografica: un prodotto artigianale, dal suono lo-fi, realizzato con un budget inesistente tra le mura della Boothbay High School, di uno studio di ceramica e di un appartamento a Old Orchard Beach. “Stone”, così si chiama il disco, è – in breve – una delle tante produzioni discografiche folk americane stampate in pochissime copie negli anni sessanta, settanta: una private press, per intenderci. Potrebbe essere quindi qualcosa di dimenticabile. E invece no: è una gemma sonora dai toni eterei. Sorprende, stupisce: è spettralmente folk, psichedelico, pure country in alcuni momenti. La Drag City Records l’ha ristampata in vinile un mese fa (il 12 febbraio 2021) dando vita a un mondo musicale sognante che ritornare finalmente ad esistere, tant’è che Bill Stone nell’ultimo anno ha pure ripreso a scrivere nuovo materiale (disponibile su Bandcamp), dopo una vita passata a fare il consigliere d’orientamento.
Musica da riscoprire.
(Monica Mazzoli)