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Fra qualche giorno sarà il 30ennale di “Blue Lines” dei Massive Attack (e qui su Kalporz lo festeggeremo), ma c’era un articolo che era un po’ di tempo che avevo in mente, ed era la seconda puntata di “Coverworld”, la nostra rubrica sui rifacimenti più o meno famosi delle canzoni che amiamo, con oggetto “Teardrop” proprio della band di Bristol.
“Teardrop” è una canzone che conosciamo tutti, cavallo di battaglia dei Massive dal vivo e che al tempo fece scalpore pure per il video dove cantava un feto. Una cosa, diciamo, che rimane impressa. Ma forse non in tantissimi sanno che il testo – scritto da Elizabeth Fraser – la cantante a cui si erano affidati i M.A. per la voce, era stato ispirato dalla morte di Jeff Buckley, suo amico al tempo e, secondo alcune fonti, con cui aveva avuto una storia. Di certo la loro conoscenza ha lasciato ai posteri anche una canzone, “All Flowers In Time Bend Towards The Sun”, con un toccante duetto. La notizia che Buckley era annegato arrivò a lei mentre la Fraser stava registrando la canzone. “È stato così strano“, ha ricordato a The Guardian nel 2009. “Avevo ricevuto delle lettere e stavo pensando a lui. Quella canzone è un po’ su di lui – è così che mi sembra, comunque”.
Che poi la prima scelta come cantante non era stata la Frazer, bensì nientepopodimeno che Madonna. Anzi, Mushroom l’aveva già contattata (i Massive Attack avevano già collaborato con Veronica Ciccone in “I Want You” nel 1995), le aveva inviato il demo della canzone, al tempo intitolata “No Don’t”, e Madonna ne era entusiasta. Ci rimase male quando le dissero che la canzone non era sua. E anche Mushroom, messo in minoranza da 3D e Daddy G che preferivano la voce più delicata della Frazer, fu particolarmente contrariato, e questo attrito fu una delle gocce che fece traboccare il vaso per la sua conseguente dipartita dal gruppo. Che poi se ascoltate bene “I Want You”, Madonna era perfetta per cantare i M.A. e era suadente: io non sono innamorato dell’interpretazione su disco della Frazer, alla quale preferisco la versione di Martina Topley-Bird, per cui: che avesse ragione Mushroom?
Ma andiamo oltre: il brano è costruito intorno a un sample della canzone del 1973 “Sometimes I Cry” del pianista jazz Les McCann, campionato proprio dal disco in vinile con un sacco di graffi. Ciò è coerente dalla natura primigenia dei Massive Attack come dj: è noto che loro all’inizio, nel collettivo The Wild Bunch, usassero solo campionamenti per le loro composizioni. Direi quindi che bisogna partire da qui: “Sometimes I Cry” dunque è una “pre-cover”, più che una cover. È leggermente meno veloce di “Teardrop” (evidentemente i M.A.), raffinata per l’uso del piano elettrico ma un po’ “rovinata” – a mio parere – dal suono di synth usato che tradisce subito l’anno di produzione. Che poi, in realtà, non è vero, perché gli Air – nel loro retrofuturismo – hanno sicuramente usato suoni simili, e lo hanno fatto negli anni Novanta.
Dopo la “pre-cover”, ecco i remix, contenuti come retro del singolo dei Massive Attack dell’epoca (1998): il primo è intitolato “Mazaruni Dub One” ed è opera di Mad Professor (è presente anche nella versione deluxe di “Mezzanine”): il producer inglese trasforma il pezzo in uno splendido dub, e si sa che i Massive Attack hanno anche quell’influenza, per cui tutto si tiene. Via all’alone di delicatezza della canzone originale, dentro sensazioni da trip. Il secondo remix presente nel singolo era lo “Scream Team Remix” dal carattere confabulatorio, curato da Martin Duffy dei Primal Scream.
Una specie di remix è quello che suona l’MC spagnolo Elphomega (2016), un rapper degli anni ’90 che sfrutta solo il sentore di “Teardrop”, non la struttura completa, e si butta solo alla fine in un flow in spagnolo. Molto più personale di tante altre che vedremo qui di seguito.
Una delle ambientazioni preferite di “Teardrop” è il folk, visitata da José González e da Newton Faulkner: il cantautore svedese (González) ha classe e la dimostra, la suona come se fosse una sua canzone e la porta più o meno negli anni ’60, mentre quello inglese (Faulkner) a me sembra più impostato e meno libero, con una parte finale piuttosto terribile, a mio modo di sentire.
Diciamolo subito: ci sono artisti “famosi” che si sono approcciati con la nostra song: The Kooks (nel 2013) offrono una versione folk-rock dimenticabile, proprio un divertissement da sala prova, mentre molto più sul pezzo sono i Simple Minds con suoni non banali, seppure debba inevitabilmente fare delle riserve sulla voce di Jim Kerr che in questo caso non sembra nemmeno Jim Kerr; Charlie Burchill lavora in ogni caso in maniera splendida, e la canzone è particolarmente curata (e virtuosa).
Il jazz offre sempre delle belle interpretazioni: c’è quella di Paolo Fresu & Omar Sosa (“Teardrop / Ya Habibi)” che sta tra il jazz e la musica araba, e poi c’è quella dalla tromba gustosissima di Avishai Cohen e Big Vicious (2020), tipicamente newyorkese. Quest’ultima poteva essere usata come sigla di “Homeland”, e se avete visto il serial tv mi avete capito; si tratta comunque di una reinterpretazione elevatissima, soprattutto per la parte mediana psichedelica.
Si mantiene invece in bilico tra dub e jazz la versione del duo argentino Dual Sessions (2007), in questo caso con il featuring di Kelly, ma forse si tratta solo di un arrangiamento più easy listening, un po’ lounge. Versione interessante e personale, comunque, soprattutto perché cambia la batteria, contrariamente a molti che si appiattiscono sul tempo originario dei M.A., anzi di Les McCann.
Entrando nel mondo delle strumentali, ci sono le immancabili versioni solo pianoforte: Daniel Ketchum accentua il lato oscuro con qualche notina in più da film horror, mentre Josh Cohen la svolge fedele e scolastica, e per questo evitabilissima. Piena di pathos (e infatti suonata live) è infine l’interpretazione del jazzista di stanza a New York Brad Mehldau (2015), un vero fuoriclasse.
Un po’ statica (anche se gli echi dub non sono male) la versione per arpa dell’italiana Micol Arpa Rock (2018): senza infamia e senza lode.
E se gli Eklipse, un quartetto tedesco al femminile, usano gli archi in maniera classica e prevedibile, più godibile è il solo vocals dei Voces8, un ottetto a cappella del Regno Unito: l’atmosfera sospesa dell’originale è mantenuta e il pezzo volteggia nell’aria. Sembrerebbe solo voci la versione della jazzista croata-americana Thana Alexa (2020), ma è solo la parte iniziale (e finale): a metà parte la batteria e c’è pure un lungo assolo lancinante jazzato di chitarra elettrica, la canzone si movimenta anche con controtempi e poi si risiede nel finale. Un’ottica quantomeno movimentata.
Al contrario la versione della band di Berlino DCCM (Death Come Cover Me), del 2020, è decisamente tamarra, con una batteria terribile e un misto pop/hyperpop/nu metal decisamente da rifuggere. Del resto sono proprio un progetto esclusivamente per rifare cover, dunque senza quell’afflato artistico che può avere un artista che – nel bel mezzo di tutta la sua produzione originale – decide di fare una cover per esigenza sentita.
A proposito di “tamarritudine”: mi aspettavo di trovare più versioni dance o electro, e invece ho intercettato solo due. La prima è quella di Rezi Dolidze, producer georgiano (di Tbilisi) che usa il riff sopra la cassa dritta e basta. un po’ poco? Beh, a dire il vero basta, per quello che si propone. Invece CRYZT (2020), progetto tedesco di David Sobol e Kevin Zaremba, non colpisce nel segno.
Ci sono poi cover abbastanza fedeli all’originale: la migliore è JONES (2018), che sfrutta un’ambientazione un po’ giappa per via dell’onnipresente vibrafono; la cantante inglese che si dimostra più a suo agio con la sua produzione pop da far battere il piedino, come nella bella “Camera Flash” (2020), che val la pena postare sotto.
Ugualmente fedele all’originale è la versione dei Monakr(2017), da Chicago, da citare per una esibizione straordinaria di doti vocali da parte del cantante Matthew Santos. I MONAKR si sono formati nel 2014 come una collaborazione tra gli ex membri della band indie pop Hey Champ (Saam Hagshenas e Jonathan Marks) e il cantautore (già nominato ai Grammy) Matthew Santos; secondo le note ritrovate online: “ispirato in gran parte dall’electro-pop-rock degli anni ’80 stile Peter Gabriel, la musica dei MONAKR unisce all’oscuro R&B il lunatico trip-hop della fine degli anni ’90“.
Similare, cioè con suoni attuali (e autotune) e un’approccio deciso è la versione Sunny Gray (2018), che in realtà è italianissimo: si chiama Davide Moica, è di Milano ma si è trasferito nell’East Side di Londra. Grintoso.
Piena di bit elettronici e piuttosto dominata invece da un sentimento orchestrale “da film”, la versione dell’islandese HÄANA (2017) trasforma la canzone in un folk celtico, ambientazione epica e per certi versi sorprendente.
Si fermano a replicare l’originale Hayley Williams (cantante dei Paramore) e Zahara (una cantante spagnola). Per Zahara si ripete il discorso di JONES: Zahara ha pubblicato da poco (a marzo 2021) il video di “TAYLOR” che la vede alle prese con un pop veloce interessante.
Però il premio “cover inutile” lo vincono i neozelandesi di Auckland Naked and Famous: scorre via… oh, niente da dire, ma… che senso ha?
Il duo olandese dei Luminar (il compositore Evert Zeevalkink e Sofia Dragt) è più ficcante: senza stravolgere il pezzo, accentua una suadenza alla Sigur Ros che gli conferisce un alone eterno.
E alla fine, as usual, arrivo alla versione da Oscar, quella “che li batte tutti”: sono i Civil Twilight i vincitori. I sudafricani hanno un respiro quasi post rock, ma è la loro capacità di far suonare rock una canzone che rock non è che mi ha colpito: soprattutto non hanno paura di lanciarla, e di lanciare con essa il cuore oltre l’ostacolo. La prova vocale Steven McKellar è poi memorabile, anche se aiutata da un po’ di effettistica.
Ah, non c’entra niente ma mi piaceva finire questo articolo, un po’ come i titoli di coda, con “Let your teardrop fall” di Horace Andy: è sempre una lacrima che cade, e poi c’è lui che sappiamo quanto è stato importante per i Massive Attack. Ecco, prendetela così, dopo così tante versioni di una stessa canzone, vi lascio con qualcosa di diverso, per variare. Alla prossima cover.
(Paolo Bardelli)