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Risfogliando ultimamente le riviste musicali dei primi anni Novanta non ho potuto non notare come ancora fosse forte – anzi forse era al suo apice – l’amore per l’hi-fi, inteso come cultura di ascoltare i dischi, e soprattutto i “nuovi” cd che promettevano digitalizzazione eterna, in alta fedeltà: piastre, amplificatori a valvole, casse di ogni dimensione, mobiletti stilosi ammiccavano da quelle pagine per garantire la migliore esperienza sonora di sempre. Oggi è tutto cambiato: la maggior parte di noi è abituata ad ascoltare la musica in mobilità, con i supporti in cui è possibile, via bluetooth, e via gli impianti stereo dalle nostre case che non c’è più spazio e poi fa anche arredamento “tamarro”. Tutta questa premessa fa gioco a raccontare dell’ultimo album degli scozzesi adottati londinesi Django Django, perché questa volta sono gli stessi musicisti che hanno abdicato in partenza a dotare il loro “Glowing in the Dark” di una particolare produzione scintillante, optando per una più morigerata incisione in basso profilo. “Se gli ascoltatori ascolteranno l’album con supporti di fortuna, perché registrarlo bene?” sembrano dirci i Django Django.
“Glowing in the Dark” ha quindi un non-impatto, sceglie di rimanere – a livello sonoro – nelle retrovie, soprattutto da un punto di vista ritmico e di suono della batteria che è solo un puntino che ogni tanto segna il tempo delle canzoni. Che sono belle, lo vorrei dire subito: forse migliorando da un punto di vista compositivo rispetto al precedente “Marble Skies“, molto brillante come impatto ma probabilmente scritto con meno passione, i Django Django hanno cercato di mantenersi al passo coi tempi con una sezione ritmica che non dà fastidio, per suonare più pop, ma hanno azzeccato le canzoni. Del resto, se una band come loro “tipicamente anni Dieci” riesce a scavallare il decennio indenne e ancora piuttosto in forma, evidentemente ha qualcosa da dire.
Se tralasciamo la bellissima apripista di “Spirals”, che conosciamo da tanto e che mi aveva fatto quasi gridare al miracolo,“Glowing in the Dark” guarda contemporaneamente al passato, alle melodie alla Beach Boys che sono sempre stata la cifra stilistica dei nostri (“Right The Wrongs”, “Headrush”), ma contemporaneamente ritrova – in canzoni come “Got Me Worried” e “Night Of The Buffalo” – l’indole mondialista che li aveva fatti conoscere e che era presente nell’esordio, l’ancor oggi non superato album omonimo del 2012. Sembrava infatti che, strada facendo, i quattro avessero rinunciato a quell’eclettismo che mischiava spaghetti-western e space music per approdare a una più sicura new-wave, mentre ora pare che vogliano tornare a sporcarsi le mani con la loro anima più sincera o, meglio, a non abbandonarsi a un’unica sensibilità. Non solo dunque arpeggiatori (comunque presenti, vedi “Hold Fast”), ma anche candide chitarre acustiche come una “normale” folk band (“The World Will Turn”), un minimo di funk (“Kick The Devil Out”), gustosissime sperimentazioni strumentali (“The Ark”).
Puntuali all’appuntamento triennale (dal 2012 hanno fatto un album ogni 3 anni, scrupolosi come impiegati del catasto), i Django Django hanno dimostrato ancora una volta di avere voglia di suonare ed idee da vendere, peccato solo per questa loro produzione in sordina (che non mi è piaciuta, si è capito?) che in alcuni punti li fa suonare davvero leggerini quando loro potrebbero spaccare. Ma la qualità dei brani e la loro testardaggine fanno perdonare questa loro volontà di risultare più pop, che paradossalmente non pagherà, perché i risultati migliori si ottengono sempre quando si è se stessi, non quando si ammicca a qualcosa che non si è. “Glowing in the Dark” dunque rimane un buon album che avrebbe potuto essere ottimo e che invece si è fermato a essere “di passaggio” nella loro discografia. “Glowing in the Dark” è infatti sostanzialmente autoprodotto, come del resto tutti e quattro gli album dei Django Django: il tastierista Tommy Grace è tornato a vivere a Glasgow e il bassista Jimmy Dixon si è trasferito a Margate ma tutti e quattro si ritrovavano periodicamente nel loro studio a nord di Londra per lavorare sui pezzi, e il batterista e produttore David Maclean supervisionava il tutto. Insomma, che forse sia giunto il momento di prendere un produttore vero e proprio?
70/100
(Paolo Bardelli)