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C’è bisogno di ridere. O almeno così si dice in giro. Un programma televisivo, che forse è un reality e forse è non si sa bene cosa, sta spopolando proprio per questa caratteristica. Pare faccia morire dal ridere. Risate isteriche, risate spensierate, risate impossibili da trattenere. Al di là dei gusti soggettivi e del medium a cui rivolgersi – o sarebbe meglio dire chiedere aiuto – non bisognerebbe mettere la testa sotto la sabbia davanti a eventi di questo tipo. La cultura pop ha molto da raccontare sul presente. Ci dà la cifra delle passioni, delle mode, delle nevrosi. Ma soprattutto dei bisogni. Chi scrive, per sollevare l’umore, si ritrova spesso a cercare video di Leslie Nielsen che fa o dice cose nei suoi film. È un gesto inconscio, fatto da qualcuno con risorse limitate in questo campo, in quanto non ha mai avuto la passione per “la commedia”, nel senso stretto del termine. Qual è allora la musica che fa sorridere? Esistono band che mettono di buon umore, senza troppi retropensieri o venature malinconiche, senza gusto amarognolo in bocca?
I The Primitives nascono a Londra nel 1984 e per uno come Scaruffi, che qualche competenza la ha, sono “un po’ la versione commerciale del feedback-pop lanciato dai Jesus And Mary Chain”. Nonostante le apparenze, anche lo storico musicale non è immune al fascino di questa band. I Primitives sono un dirty pleasure che di dirty ha solo le chitarre, sporche quel tanto che basta per catturare le orecchie di chi del suono della sei corde non può fare a meno. Recuperando le foto degli esordi, esteticamente i due leader, la cantante Tracy Cattell (nome d’arte Tracy Tracy) e il
chitarrista PJ Court, sembrano versioni ripulite di Debbie Harris e Kevin Shield. Se è innegabile che timbro e look di Tracy ricordassero quelli della cantante dei Blondie, lo stile chitarristico e l’aspetto del tenebroso Court si rifacevano a un immaginario dark-wave tipicamente anni ’80, più che al frontman dei My Bloody Valentine. Power Pop, post-punk, new wave, garage rock, il gioco delle etichette, amatissimo da chi scrive di musica, trova terreno fertile con il suono della band londinese. Se si vuole dare una definizione simpatica, potremmo chiamarlo shoegaze allegro. Allegro, sì, in quanto i brani della band hanno velocità, tiro e armonie vocali da sorriso istantaneo, per tornare al tema iniziale.
Eppure, la discografia del gruppo non è poi così ricca, conta infatti appena tre album prima della reunion e il dimenticabile full-lenght del 2012. Il meglio si trova già tutto nell’esordio di “Lovely” e in alcuni pezzi del seguito, “Pure”, oltre che nella splendida raccolta “Everything’s Shining Right”, ideale per chi vuole avvicinarsi alla loro musica. Ci sono davvero tanti, troppi pezzi da raccomandare a chi volesse “farsi un giretto” con i The Primitives. La scatenata “Really Stupid” cattura la loro anima più fracassona, “Thru the Flowers” è letteralmente impossibile da non canticchiare dopo pochi ascolti, e mette in evidenza la consistenza delle chitarre di Court. Lo stesso discorso vale per la contagiosa “Stop Killing Me”, una specie di boogie-woogie dopato; impossibile restare fermi. L’ultima doverosa menzione non può che andare al brano “Lazy”, cantato in via eccezionale da PJ Court. Qui si deve gettare la maschera, il testo proprio allegro non è, anzi ci si trova dentro l’apatia e il senso d’impotenza dell’età post- adolescenziale, l’incomunicabilità con il mondo dei veri adulti, con una società che non accoglie e
si rifiuta di capire. E, volendo, il verso finale “I think I’ll go to sleep” può evocare ombre inquietanti. Ma si è detto che questo è il momento in cui servono le risate, la spensieratezza. Allora oggi preferiamo immaginarci il protagonista del pezzo come un moderno Lebowski, incurante, strafottente e pacifico, con in una mano un White Russian e nell’altra uno spinello.
“Everybody is going crazy. I don’t care. I’m so lazy”.
(Stefano Solaro)