Share This Article
Sono spesso le coincidenze, gli allineamenti, a rendere il nostro rapporto con la musica così speciale: una leggera melodia allevia l’afa di un pomeriggio domenicale estivo, un’altra, molto più sinistra, riaffiora brutti ricordi. C’è un aneddoto apocrifo, in giro da anni, che così recita: ad aprire, nel 2001, il primo spettacolo da headliner degli Strokes a Londra avrebbero dovuto essere i Life Without Buildings. Band di Glasgow formatasi nel 2000, i Life Without Buildings inaugurarono il nuovo millennio con un unico, monumentale disco: “Any Other City”, pubblicato nel 2001 dalla Tugboat Records, etichetta discografica vicina alla più nota Rough Trade.
Ispirati dal math-rock dei Don Caballero e i Mission of Burma, i Life Without Buildings diedero la loro curvatura a-ritmica e acerba all’indie-rock dei primi anni zero. Ciò che cattura e intrappola immediatamente è la tortuosa interpretazione spoken-word che Sue Tompkins, una delle voci più particolari della sua generazione, dà ai dieci brani dell’album. Tompkins tratta il linguaggio come una gomma da masticare fin troppo appiccicosa, lavora il testo ruminandolo, le parole sono ripetute fino all’insinuarsi di una spossante a-significanza. Nel brano di apertura, “PS Exclusive”, Tompkins rimastica quarantaquattro volte le parole “the right stuff” di un testo dal significato mai raggiunto. “No details”, ci preavvisa, “but I’m going to persuade you”. Rimaniamo inchiodati, la seguiamo ciecamente per i prossimi quaranta minuti o giù di lì, e Tompkins, sorpresa e dinamica in ogni traccia, sa esattamente dove portarci. Che siano riferimenti meta-testuali a “In a Silent Way” di Miles Davis o l’acronimo dei My Bloody Valentine ripetuto incessantemente, il linguaggio non sembra mai riuscire a stare al passo con il suo ansimante steccato. “Scrivo quando penso di essere influenzata da qualcosa”, racconta Tompkins a The Quietus, “penso al collage, come un Rolodex di immagini e parole, musica, ritmo, ripetizioni e quando si ripete si vede in modo diverso”. È proprio il potere delle ripetizione, il differirsi dell’uguale, che rende i testi di “Any Other City” molto più vicini a dei cut-up borroughsiani, il significato reiterato fino a trasportarci per associazioni e assonanze in territori estranei. “Do we need order?”, si interroga scherzosamente Tompkins nella traccia “Philip”. A quanto pare no, solo qualche esercizio di stile.
I Life Without Buildings si scioglieranno pochi anni dopo e Tompkins, entrata a far parte del gruppo quasi per gioco, intraprenderà una discreta carriera nelle visual arts. Per molto tempo, dei Life Without Buildings resterà un live pubblicato nel 2007 e poco altro. Poi, forse per una beffa del tempo, quasi venti anni dopo l’uscita di “Any Other City”, il brano “The Leanover” diventa virale su TikTok e ha adesso quasi sei milioni di streams su Spotify. Mi piace pensare che l’autoironia e l’indole decontestualizzante dei Life Without Buildings abbiano anticipato l’età contemporanea, ma sarebbe un cliché giornalistico. Dopotutto, queste sono solo “informazioni fra le foglie”, come ci ricorda confusa Tompkins stessa in “Let’s Get Out”.
“Any Other City”, fuori commercio dal 2014, uscirà questo 23 Aprile in ristampa per la Rough Trade Records ed è pre-ordinabile sul sito ufficiale dell’etichetta discografica.
(Viviana D’Alessandro)
Foto in evidenza di Alan Dimmick.