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La parabola di St. Vincent è complessa: nei primi tre album ha seguito una fase di crescita artistica e di ricerca sonora costante culminata con uno dei dischi più importanti degli anni Dieci, ovvero “Strange Mercy” (2011). Si può discutere quale dei tre sia il migliore, ma è indubbio che ciascun lavoro abbia una sua personalità e sia riuscito. Personalmente sono rimasto affascinato da “Strange Mercy”, con quel suo essere sintetico e umano al tempo stesso, come se Annie avesse cercato di essere forte, e quindi asettica, all’interno di un momento difficile per lei (si parlava di depressione) e quindi su uno sfondo fortemente emotivo. I tappeti di Moog7 del tastierista Bobby Sparks sono i panorami che anestetizzano il suono prima dell’esplosione di colori che vedrà protagonista St. Vincent nel prosieguo della sua carriera. È come se a quel punto St. Vincent avesse terminato il suo discorso fieramente indipendente (e particolarmente denso) per poi essere pronta a essere più pop, si direbbe “frivola” se questo fosse un aggettivo che potesse essere non equivocato.
Ma prima di lasciarsi andare a un pop con punti molto decisi anche da un punto di vista dell’immagine, c’era stato l’intermezzo del partenariato con David Byrne in “Love This Giant” (2012) che aveva fatto scaturire poche scintille; si era pensato a un semplice incidente di percorso, a un binomio mal riuscito da un punto di vista delle affinità elettive, e la si era aspettata al varco del “difficile” quarto album solista.
Che non aveva deluso la quasi totalità, ma a me sì: il gioco si iniziava a ripetere, nonostante la scrittura si mantenesse su alti livelli, e soprattutto si iniziava a registrare un “pericoloso” spostamento verso il pop. Oddio, questa direzione non è un problema in sé, anzi, in quel periodo tutto quello che andava cominciava a essere pop, ma è una valutazione mia di quello che meglio funzionava di St. Vincent. Che non era il suo lato pop. Nel suo essere una musicista preparatissima e tecnica, “St. Vincent” (2014), lei non riesce a essere pop, che significa non solo levigare i suoni ma anche essere più semplice e lineare. Annie alleggeriva la proposta ma continuava a essere cerebrale, e personalmente trovavo questa antinomia disturbante.
Lei è stata coerente, e si è definitivamente inserita nella parte in “Masseduction” (2017), curando in maniera maniacale il suo look e l’ammiccamento fetish piuttosto che la musica: lì io l’avevo decisamente persa. Ma che quella fosse una mossa sbagliata non lo dico io, lo dice lei (oggi): ha infatti dichiarato che si sentiva ingabbiata e ingessata in quella pelle smaccatamente pop. Letteralmente: gli abiti di pelle erano scenografici ma la mettevano su binari già definiti, così come gli arrangiamenti delle canzoni senza guizzi. St. Vincent aveva pure perso il divertimento di suonare live, o almeno quello sembrava.
Diciamo che – a sua parziale discolpa – anche il suo coming out della relazione con Cara Delevigne l’aveva messa sotto il riflettore dei paparazzi e di chi non gliene frega nulla della musica – ed era più o meno il 2014 – e pertanto l’aveva come “imprigionata” in quel personaggio glamour. Era come se si accorgesse che quello era richiesto a lei, e che non si volesse sottrarre. Era una sfida, e da artista carismatica non poteva che vincerla da un punto di vista del riscontro del pubblico. Meno circa i risultati artistici, a mio parere.
Per cui quando l’anno scorso ho letto che aveva pure iniziato a dare lezioni online ho pensato subito che fosse un’artista finita: di solito, e questo vale per tutte le professioni, quando si inizia a insegnare agli altri molto probabilmente si è terminato di produrre autonomamente. Non è detto, ma è un po’ una mia teoria.
Ma St. Vincent ha saputo sorprendermi ancora una volta: sì, in “Daddy’s Home” avrà pure rinunciato a inseguire la contemporaneità, come la accusa qualcuno, ma è tornata a essere sgusciante, funk, realmente sensuale, non quel sensualità plastificata di “Masseduction”. E se lo dico io che non sono un fan, ed è un eufemismo, della produzione musicale 1973-1976 ai cui suoni St. Vincent guarda ora, vi potete fidare. Lei ora può suonare libera, e chissenefrega se ha usato degli abiti vintage: la sua classe (e le sue bellissime canzoni da un punto di vista del songwriting) sono odierne, sono di oggi.
Per quanto mi riguarda, il bentornato a casa non va dato al papà, ma a lei: “Welcome home, Annie!”
(Paolo Bardelli)