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Il capolavoro di Marvin Gaye ha compiuto mezzo secolo lo scorso 21 maggio
L’America all’ennesimo bivio, agli albori degli Anni Settanta, sembra avere una chance di redenzione nella dolcezza ferita di What’s Going On, il capolavoro di Marvin Gaye che ha compiuto cinquant’anni una settimana fa. Fu subito una lotta, sin dal giorno in cui nacque il brano che dà il titolo all’album, che fu ispirato a uno dei suoi compositori, Renaldo “Obie” Benson, membro dei Four Tops, da una violenta aggressione della polizia ai danni di una manifestazione di pacifisti. È il 1969: l’America si scrolla di dosso le speranze e le battaglie della Summer of Love, che è già arrancante e ormai appannaggio dei boomers. Le speranze lasciano il posto a cicatrici fresche, che risultano ancora più dolorose perché figlie di una cura niente affatto efficace. Anche Marvin Gaye è turbato dai problemi sociali che si allargano come una piaga purulenta in un corpo già malato che è l’America alla fine dei Sixties, che si affaccia sul nuovo decennio senza aver fatto i conti con se stessa e i suoi demoni. What’s Going On nasce nel solco di paure ancestrali che sembrano materializzarsi da un momento all’altro, ma sa rispondere alla domanda che pone con una sincerità e una delicatezza tali che non suona solo come una sirena d’allarme ma anche come una rinascita.
Le lotte che Gaye deve combattere sono, oltretutto, anche artistiche. Quando nel settembre del ’70 fa ascoltare in anteprima il brano “What’s Going On” a Berry Gordy, il boss della Motown, questo non lo apprezza, definendolo, anzi, “the worst thing I ever heard in my life”. Giusto qualche mese prima, a Gaye che gli raccontava di come avesse intenzione di pubblicare un “protest record”, Gordy gli rispondeva “don’t be ridicolous”. La Motown era la casa discografica della Black music commerciale: di qualità, certo, ma che doveva essere venduta. Gordy non voleva allontanarsi di un centimetro dall’obiettivo primario dell’azienda che gestiva con esperienza e (discreto) pragmatismo.
I piani di Gaye, tuttavia, erano altri: aveva in mente una tipologia di album completamente diverso da tutti quelli che la Motown aveva pubblicato fino a quel momento. Una rivoluzione sonora si sarebbe abbattuta, per l’ennesima volta, sul mondo musicale anglofono Black e, per riflesso, sul mondo. Gli Sly & the Family Stone, nel frattempo, erano in studio a dar vita a un lavoro epocale come There’s a Riot Goin’ On, che sarebbe uscito qualche mese dopo la pietra miliare di Gaye e avrebbe ulteriormente scombinato le carte sul tavolo. Gaye stava portando avanti ciò che riteneva fosse doveroso portare avanti, un album che fosse anche lotta sociale, civile e artistica. La strategia fu l’attesa. Non silenziosa, non vuota, ma, per chi lo attendeva, estenuante. E la Motown, alla fine, pubblica il singolo nel gennaio del ’71. Sarà un successo epocale.
Il resto, per moltissimi, è storia arcinota. Soltanto dopo l’uscita del singolo, che fu peraltro prodotto interamente da Gaye, si completano le registrazioni dell’album di cui “What’s Going On” sarebbe stato la title track. Il cosiddetto Detroit Mix, ultimato in aprile, fu scartato da Gordy, che qui la ebbe vinta, ma Gaye fu contento di remixare i brani subito a inizio maggio. Oggi il mix di Detroit è reperibile in alcune ristampe (2001, 2011) ed è estremamente rilevante da un punto di vista filologico perché ci permette di capire quale natura avesse questo diamante accecante ancor prima che assumesse la forma che tutti noi conosciamo.
La perfezione costa fatica ma spesso porta a risultati epocali: la Motown aveva parecchio da rimproverarsi per non aver riconosciuto immediatamente le potenzialità di “What’s Going On”, che forniva all’azienda una seconda giovinezza. Il tabù era sfatato: ora la Motown avrebbe potuto concedersi altre pubblicazioni simili, che guardavano al soul più elegante, al jazz, a Isaac Hayes e a Duke Ellington, senza più paura di fare un torto al pubblico. A partire da “What’s Going On” Gaye costruisce un concept album sui generis. Ai richiami intratestuali, evidenti e frequenti, si intermezzano discontinuità forti che convivono splendidamente all’interno di un tessuto che la critica ha identificato come song cycle: ogni canzone, infatti, sfocia nella seguente, rendendo l’album una sorta di suite che si muove nello spazio e nel tempo. A parlare è un reduce del Vietnam che guarda dritto negli occhi i fantasmi che lo perseguitano e le ingiustizie che pervadono la società in cui vive. Pungenti, liberatorie e sognanti, le canzoni che costruiscono il disco sono memoria collettiva ben radicata in un preciso momento storico ma al tempo stesso atemporale e infinita. È spiritualità ed è materia. Di recente anche Spike Lee ha pescato a piene mani dall’album per il suo Da 5 Bloods, ricordando a tutti la “monumentalità” dell’album. Non bisogna mai abbassare la guardia, come suggerisce “What’s happening brother?”.
Dove Gaye è politico è anche appassionatamente filosofo. L’ennesima perdita dell’innocenza di un paese diviso e la sua assoluta incapacità di provare vergogna (aidôs, avrebbero detto i greci) per alcune delle proprie tragedie spiegano il bisogno per Gaye di essere universale e personale insieme, non potendo più scindere le due dimensioni. Marthin Luther King era morto. I Sessanta si chiudevano tra disillusioni e paure. È a suo fratello a cui parla in “What’s Happening Brother”, mostrandogli le proprie incertezze, ma i destinatari a cui Gaye concede la sua protezione sono spesso “invisibili”. Di volta in volta è l’ambiente al collasso in “Mercy Mercy Me (The Ecology)”, sono i bambini indifesi e minacciati in “Save the Children”, è, in “God Is Love”, la famiglia, altro nucleo distrutto dal turbine cieco del mondo contemporaneo. Frammenti travolgenti di dionisiaco e apollineo, le anime della tragedia greca secondo l’interpretazione di Nietzsche, una storia di un angelo e un diavolo pronti a contendersi l’anima del malcapitato come nel celebre passo di Bonconte da Montefeltro nel Purgatorio dantesco.
Il Marvin Gaye uomo, ambizioso e sensibile, è dietro e dentro le proprie canzoni e le battaglie politiche e artistiche che attraversano il disco. Le tocca con mano nel loro farsi e prodursi ed è la sua stessa anima a contorcersi e a infiammarsi, contesa, appunto, da angeli e diavoli. Le sue preghiere sono a volte accorate e a volte liberatorie. Cinquant’anni dopo, abbiamo ancora moltissimo da imparare da questo manifesto di resistenza politica e di sensualità. What’s Going On, come ogni opera epocale, allontana gli affanni pur cantandoli, descrivendoli, denunciandoli. Ha inciso, e incide tuttora, in maniera impressionante.
(Samuele Conficoni)