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Il monolite scagliato da Jacopo Incani sulla scena musicale indipendente italiana lo scorso mese, con l’uscita di “IRA”, è stato un fenomeno tanto affascinante quanto unico nel suo genere. Questo perchè sì, aspettavamo tutti con ansia l’uscita del terzo album dell’autore sardo, che con “Die” era riuscito ad approdare a un pubblico vasto e particolarmente trasversale, che spaziava dagli amanti del pop di ricerca agli ascoltatori di IT-pop grazie al fatto di contenere al suo interno un perfetto equilibrio tra i momenti più leggeri e una ricerca sonora inquadratissima e digeribile anche da chi solitamente non supera i 2.30 minuti della forma canzone.
Quello che stupisce, però, è come dopo la pubblicazione di “IRA” -un disco ostico, incredibilmente lungo, assolutamente inattuale- la figura di Jacopo Incani ne sia uscita con una sorta di santificazione mediatica, salvatore della povera patria schiacciata da immondizie musicali, un benevolo alieno dal cui ascolto si possa uscire purificati dai nostri peccati musicali.
Certo, era chiaro a tutti che Iosonouncane fosse altro dal panorama melodico e disimpegnato della musica leggera italiana degli ultimi dieci anni: l’esordio -ancora acerbo- de “La macarena su Roma” forniva una forma simile al teatro-canzone con i suoi tsunami di parole, di personaggi, di situazioni, in cui la strumentazione si piegava alle trame tessute dai testi; il secondo episodio, sopracitato, aveva invece piegato la voce a elemento funzionale di produzioni che dipingevano un ambiente tra il reale e l’immaginario, in cui anche i testi molto più poetici fungevano da didascalie per le immagini proposte.
In una sorta di sintesi del proprio percorso artistico nel quale sembrerebbe una tappa fondamentale anche l’esperienza dal vivo con Paolo Angeli, in “IRA” Iosonouncane arriva a rendere le sue composizioni un blob sonoro, in cui la voce scompare nel mix e le atmosfere si fanno sempre più dilatate, ovattate, distanti. Quasi come se questo album fosse una sfida all’ascoltatore, una gara di resistenza e concentrazione tra l’artista e il suo pubblico.
Perchè? Beh, i motivi sono molteplici. Intanto la durata: concepire e pubblicare un disco di due ore, nel 2021, è semplicemente una follia. Non che siano mai stati molto simpatici, ma negli anni in cui si parla sempre di più di un’attenzione che cala sempre di più, sembra incredibile ascoltare 1 ora e 50 minuti di musica continua con un grado di attenzione sufficiente. Poi, i testi e la voce, che per me sono sempre stati il punto centrale della produzione di Incani. Con il suo melting pot linguistico e la scelta battistiana di posizionamento fonico della voce nel mixer, costituisce uno degli elementi di volontaria non fruibilità dell’album.
Ora, chiariamoci, non sto sparando a zero su Iosonouncane. Non ne sarebbe il caso, i dischi brutti sono altri e sono anche troppi. Ma dal primo ascolto continuo a chiedermi: ma davvero? Perchè questa scelta di rendere il meno fruibile possibile un disco così atteso? Cosa ci voleva trasmettere Incani con le 17 tracce di “IRA”?
Perchè anche qui ci troviamo davanti a un aspetto quantomeno problematico. Se “DIE” trovava la sua grandezza nelle visioni chiare e nette che pennellava con suoni e parole, in “IRA” quello che appare è una nube di fumo in cui visioni frammentate e sbiadite (esattamente come la fotografia che appare sulla copertina) si presentano allo spettatore in maniera non consequenziale e a volte totalmente sconnessa, come un viaggio esoterico in una babele mediterranea.
Il che sarebbe anche interessante, se non per il fatto che “IRA” pare piazzarsi sempre un po’ nel mezzo: tra ricerca e accessibilità, tra composizione e improvvisazione, tra il finito e l’abbozzato, nella difficoltà di trovare un’unità in momenti così musicalmente e temporalmente distinti tra loro.
Ovviamente meno di un mese sembra troppo poco per entrare sul serio nel pensiero compositivo e concettuale di questo disco, nonostante i tempi da catena di montaggio che ormai dominano la fruizione della musica pop. Per concepirne la forma completa sarà fondamentale assistere alla sua esecuzione dal vivo e vedere se e come il progetto “IRA” si muoverà attraverso altri medium, per costruirne una narrazione più chiara e compiuta anche per noi.
Tirando le somme, cosa dire in poche parole di questo album? Intanto che Jacopo Incani è uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di osare, prendersi delle enormi scommesse e di vincerle, conseguendo un successo mediatico impressionante; di essere un musicista capace, colto, e di essere riuscito con le sue composizioni a rimettere al centro del discorso una musica a suo modo complessa.
Detto questo, ascolto dopo ascolto, “IRA” ancora non mi ha emozionato e la trovo un mezzo passo falso di uno dei nostri più grandi talenti che ha cercato di fare il passo più grande della gamba.
68/100
(Matteo Mannocci)